La vera storia di Bruto e il vero psicoanalista
Due dei sicari di Giulio Cesare si chiamavano Bruto.
Uno era molto stimato dal grande capo: era Decimo Giunio Bruto Albino. Era tanto stimato e benvoluto da essere considerato come un figlio.
L’altro, che si chiamava Marco Giunio Bruto, era figlio di una matrona politicamente potente, Servilla Capione, con cui Cesare aveva una conosciuta grande amicizia, e forse di più.
Va notato che alcuni storici avanzano il sospetto che Cesare lo ritenesse un suo figlio naturale. Non lo stimava come l’atro, tuttaltro, però un figlio è sempre un figlio. E’ una legge universale.
La fantasia mi porta subito a pensare ad un intrigo che Freud avrebbe trovato interessante, se non l’avesse rimosso prima di considerarlo, come spiegherò dopo.
Infatti la potente Servilla potrebbe essersi trovata a dover decidere se continuare a proteggere Cesare, ormai tiranno inviso a molti, oppure mandare al potere il figlio Bruto.
La congiura potrebbe essere stata da lei organizzata, o almeno appoggiata, proprio per favorire il sangue del suo sangue. Cioè se stessa tramite il figlio. Questo sarebbe il primo motivo di soddisfazione per Freud: la conferma che la madre s’impossessa metaforicamente del pene del figlio, cioé della sua virilità, per completare se stessa.
E’ una storia nota a molti padri, anche attuali. Se nasce il figlio maschio, ufficialmente sono orgogliosi, lo possono mostrare in società come la continuazione della propria “razza”. In questo modo possono così passare al ruolo di grand-père, come dicono più correttamente i francesi.
Il grande padre suppone che il figlio a sua volta gli consegni un nipote maschio. ln Italia lo chiamiamo più modestamente nonno, sentite che suono diverso, e gli abbiamo dato il compito di portare i nipoti al parco, di fare la spesa e di essere la parte buona del padre, nel migliore dei casi.
Nell’inconscio le cose stanno diversamente, perché in quel contenitore psichico dominano le emozioni, non la razionalità. Inconsciamente, dunque, i padri tendono a sentirsi nella posizione del fuco: messi fuori gioco poco dopo la nascita del maschio. Soffrono particolarmente l’arrivo del nuovo prediletto dalla madre. E capita che, sempre inconsciamente, tendano a distruggere il figlio, oppure a permettere che si distrugga.
Questa è più difficile da ammettere perché viola più direttamente le leggi umane, ma in analisi i casi esaminati sono talmente tanti da fare assolutamente casistica.
Le fantasie inconsce non hanno limiti finché non arrivano alla coscienza.
I più sensibili, o più forti, o psicologicamente più informati, si fanno da parte e trovano nel lavoro le soddisfazioni che in famiglia non riescono più ad avere. Sul campo del lavoro le rivalità possono essere giocate anche apertamente e si possono piantare le bandierine delle vittorie senza grandi sensi di colpa, anzi.
Altri scelgono la lotta perenne con la donna, ritenuta fredifraga, e passano la vita a litigare.
Altri fuggono, cioè si separano e cercano una nuova donna, possibilmente dedita solo a loro. E’ questa una categoria sempre più numerosa, perché le donne non sono più emarginate se non si sposano e non fanno figli.
A questa categoria appartengono però anche i tanti che ripetono l’esperienza precedente, cioè trovano una compagna che li illude di essere diversa ma spesso finisce per comportarsi nello stesso modo, perché, insomma, un figlio è sempre un figlio, si sa.
Freud ha visto quello che ha chiamato “complesso edipico” con gli occhi del figlio maschio, decisamente innamorato della sua giovane mamma. Perciò ho scritto che avrebbe trovato interessante la storia se non l’avesse inconsciamente rimossa in anticipo, in quanto involontario complice dell’azione materna. E’ una semplice supposizione ovviamente.
Ma rifletto sul fatto che Freud abbia scelto Edipo per la sua famosa metafora sul complesso di castrazione, e non Bruto. Bruto, che uccide il presunto padre Cesare, non fa la brillante carriera di Edipo, che sposa la madre e diventa re. Bruto è un figlio perdente perciò non chiama alcuna identificazione. Tra l’altro è molto probabile che la madre gli avesse rivelato la sua relazione, visto che non era più un bambino all’epoca della rivolta, e dunque avrebbe accoltellato il padre in piena coscienza. Questo chiamerebbe enormi sensi di colpa. Meglio identificarsi con Edipo, che ha agito senza alcuna conoscenza del ruolo che avevano padre e madre.
Il collegamento con lo psicoanalista è dato ovviamente dal transfert, che trasforma lo stato di paziente nello stato metaforico di figlio/figlia e permette che certi sentimenti vengano rivissuti durante il percorso dell’analisi.
I ruoli metaforici sono tanti quanti sono i sentimenti che ogni persona ha vissuto nel corso della sua vita, cioè tantissimi se si considerano tutte le combinazioni possibili.
Nella breve storia appena considerata, c’è un triangolo abbastanza spiegabile.
C’è una donna che affascina il pubblico e un numero imprecisato di uomini politici: questo la rende molto influente. Che seduce il capo assoluto, quando era visto come il padre della patria, forte, buono e coraggioso: questo la rende potente. Che lo usa per diventare madre e sottrargli il metaforico pene del figlio. Questo è il passaggio per diventare più potente di lui. Che forse alimenta le voci contro Cesare per avere un alibi al passaggio successivo. Che manipola il figlio, indebolendone il carattere forse mai forte, comunque a lei assoggettato. Che conclude la sua fantasia organizzando l’eliminazione del grande tiranno, e questo la fa sentire finalmente onnipotente.
C’è un soldato che si sente forte se partecipa alla congiura contro il padre! Che immagina di sconfiggere l’angoscia di castrazione, eliminando fisicamente il suo potente avversario, fantasmatico, nella lotta per il possesso della donna. Che sparisce nell’anonimato politico, per incapacità e spero per sensi di colpa, invece che approfittare del fatto e del momento per raggiungere le vette del potere. Che viene riportato sulla scena secoli più tardi, ma solo come esempio di vigliaccheria da non seguire.
C’è un uomo potente, il più potente del mondo allora conosciuto, che riteneva di essere inattaccabile. Che sconfigge un numero incredibile di nemici e conquista terre a non finire. Che getta le fondamenta per l’impero più potente e più organizzato mai costruito prima, in occidente. Che decide della vita e della morte dei suoi sudditi. Un uomo così, che patisce il dolore di venir tradito da un figlio, poco importa che sia quello naturale o quello scelto per la sua bravura. Un uomo che davanti a quel tradimento perde la sua enorme forza e rinuncia a reagire.
Verrà ricordato più per questo che per tutte le sue conquiste.
Nel sentire comune la sua rassegnazione e la sua solitudine sono quasi un esempio di vera paternità. Il grande dominatore si arrende ai suoi sentimenti. E Shakespeare gli mette in bocca la famosa frase “Anche tu, Bruto? Cadi, allora, Cesare”.
In questo senso, il tradimento della sola donna è ancora sopportabile per lui, ma non lo è quello del figlio.
Beh, qua una differenza va fatta tra la storia romana e la relazione psicoanalitica, tra figlio naturale e ruolo metaforico di figlio o figlia. Non perché uno sia migliore dell’altro, questo non esiste, ma perché il ruolo di figlio, fratello, sorella e genitore è cangiante a seconda della direzione dei sentimenti che prevalgono nel paziente in un certo momento.
Per esempio, se una persona ha vissuto il padre come assente ha bisogno che l’analista assuma quel ruolo. Può desiderarlo solo per alcuni periodi oppure in modo continuativo, dipende dalla gravità della ferita. E può ricorrere a meccanismi di difesa differenti di volta in volta. Per esempio per non rinunciare alla propria analisi, quella persona potrebbe frequentare due psicoanalisti, quasi certamente in tempi diversi: uno è messo nel ruolo di quello che non c’è più, l’assente, quello che ha davvero rinunciato al suo compito di padre; l’altro è messo nel ruolo del padre desiderato, più che vero: quello protettivo, presente, capace d’affetto.
Ho vissuto molte volte l’una e l’altra condizione. Le lodi esagerate di chi mi mette le vesti di genitore perfetto e le offese anche volgari di chi mi vuole nel ruolo di abbandonico o di cinico.
Sono le regole del gioco e ho sempre cercato di accettarle.
Eppure anch’io ho trovato qualche volta il mio metaforico “Bruto”. Maschile e femminile.
Prendo un solo esempio, anche se ne avrei diversi altri.
Ad una mia ex allieva dicevo che aveva il nevrotico bisogno di mantenere una specie di museo delle cere in cui rivedere i personaggi della sua vita, che voleva esistessero ma senza farli respirare: quelli che c’erano senza potere incidere sulla sua vita reale.
Come previsto, cercò un collega e fece la sua analisi parallelamente a quella che faceva con me, ma non me lo disse subito. E non so se avvertì il collega ma non credo. Comunque io fui messo nel suo museo delle cere e da quel giorno fui nevroticamente utile in quel ruolo. Perché dico nevroticamente. Perché, se grazie all’altra analisi avesse superato il suo conflitto tra i due padri, avrebbe provato sentimenti positivi anche nei miei confronti. Questo è il risultato di un’analisi terminata: le componenti prima ritenute negative vengono ridimensionate e accettate come parte della propria esperienza.
Ma in quel caso non è successo. Anzi quella persona continua ad utilizzarmi come contenitore delle sue proiezioni negative. Resta distante in modo da non vedere che nella realtà io ho ben altri sentimenti nei suoi confronti. Questo comportamento sarebbe corretto durante l’analisi, cioè finché non è stata completata la rielaborazione, ma non quando l’analisi è dichiarata finita.
Quando l’analisi è finita i sentimenti negativi devono far riflettere molto, tanto più se coinvolgono uno psicoanalista, abituato a parlarne e a superarli.
La cosa si fa ancora più seria quando succede quello che ho visto nell’atteggiamento di giovani colleghi che per sentirsi bravi fanno come il Bruto della congiura. Si affiliano a gruppi diversi di psicoanalisi o altro e da quel recinto pretendono di stabilire chi è un vero psicoanalista e chi invece è fuori.
Ho detto in tutte le salse, e ripeto, che c’è un solo vero psicoanalista e si chiama Sigmund Freud.
Gli altri si dividono in studiosi che fanno ricerca e provano a migliorare una tecnica che deve adeguarsi ai nuovi costumi, molto diversi da quelli del milleottocento, e in persone che vivono di regole rigide da osservare e da fare osservare. Chi si censura pretende che tutti si censurino per non sentire il dolore delle proprie rinunce.
In ogni caso io sto coi primi da sempre.
Le regole per la psicoanalisi spesso hanno una loro validità ma altrettanto spesso sono limitazioni arbitrarie, che infatti vengono disattese continuamente.
La ricerca è condivisione e chiede mentalità disponibili e aperte al cambiamento.
Le regole sono esattamente il contrario.
Sono messe da quelli che non sono capaci di creare, poiché i creativi non hanno tempo né voglia di pensarci. I non capaci vogliono limitare le capacità degli altri, così da non sentirsi inferiori.
La creatività è ricerca costante e non può avere limiti, se non quelli di non procurare danni.
Se questo vuol dire cambiare qualcosa prima che lo permettano le regole, per me va bene. Quelle arriveranno col solito ventennale ritardo e cercheranno di bloccare i nuovi creativi.
Allora dico: evviva Moreno che col suo “psicodramma” ha voluto esaltare la forza della spontaneità e della creatività, anche per combattere le nevrosi.
Evviva tutti quelli che hanno unito la psicoanalisi allo psicodramma per ricavarne una tecnica più profonda e più viva.
Evviva anche noi, di Mosaico, che abbiamo adottato queste due modalità terapeutiche e gli abbiamo aggiunto anche le tecniche bioenergetiche e di comprensione del linguaggio del corpo.
E la ricerca continua…