Parto da un esempio, che cercherò di limitare a pochi dettagli, e che rappresenta non solo una persona, ma uno schema di difese e resistenze tipici di una serie di persone in psicoanalisi.
Nella cura psicoanalitica viene chiamata resistenza un meccanismo di difesa che continua ad essere utilizzato, in modo automatico e inconscio, quando ormai non è più necessario, anzi quando può essere dannoso.
La domanda che sorge spontanea da questa definizione è: “per quale motivo una persona dovrebbe continuare ad utilizzare una certa difesa se non è più necessaria e addirittura può essere dannosa”.
La risposta si trova in quei due aggettivi “automatico e inconscio” che chiariscono come quella persona non abbia il controllo di certi suoi comportamenti. “Automatico e inconscio” ci dicono che uno stato non dipendente dalla volontà provoca azioni rivelatisi utili nel passato ma funzionanti nel presente al di là e contro gli interessi reali della persona.
Nella persona adulta infatti una resistenza agisce come risposta automatica ad una fantasia, quindi non tanto per reale necessità ma per un’inconscia previsione negativa. Si tratta di uno stato d’ansia che si basa sulla previsione che un pericolo affrontato nel passato si ripresenti all’improvviso nel presente.
Questa previsione di fantasia fa scattare la difesa ritenuta più adeguata, quella che in passato ha funzionato meglio, non permettendo di valutare lo stato reale e attuale delle cose.
E veniamo all’esempio.
Per l’ennesima volta stavamo affrontando l’argomento “resistenze” in analisi, quando la mia paziente “S”. mi chiese se non ritenevo giusto pensare alla fine della sua esperienza con me, dato che ormai aveva raggiunto molti degli obiettivi che si era posta all’inizio della cura. Ne mancava uno, disse, realizzare il sogno di mettersi con me, ma siccome sapeva che questo non poteva essere realizzato durante l’analisi l’avrebbe realizzato dopo, da “laica”. Dimenticava in quel momento l’altro aspetto della medaglia: controllare le sue fantasie paranoiche e la conseguente inevitabile e smodata aggressività che lanciava verso di me e verso altri.
Il punto dolente è che S. non riconosceva la componente irreale, o irrealizzabile, dei suoi progetti.
Eppure, lo era l’idea che io volessi farle del male in qualunque modo dal momento che, al contrario, stavo lavorando a favore della sua salute psichica da molto tempo e con molto impegno.
Lo era il pensiero di potersi realmente mettere con me dal momento che, nella realtà, io non avevo mai manifestato un simile desiderio, e per avere un rapporto amoroso con una persona è indispensabile la volontà di entrambi.
Per conseguenza era irreale la valutazione che stava facendo del suo stato psicologico e del punto in cui era arrivato il suo percorso psicoanalitico.
S. non accettava di avere i problemi che aveva, né le conseguenze comportamentali che quei problemi provocavano, anzi si arrabbiava molto se cercavo di renderli noti nei momenti in cui ritenevo giusto sperimentare un passo avanti.
In diversi momenti il legame di transfert che, solo, avrebbe potuto ridisegnare il quadro affettivo subìto dalla paziente durante l’infanzia è stato in pericolo.
E quella sua richiesta ne era la prova. Tradotta voleva dire: “non credo di riuscire ancora a gestire le emozioni che spingono per realizzarsi qua con lei, quelle di distruzione e quelle d’amore, perciò mi aspetto che lei stesso mi autorizzi ad uscire dal legame”.
Se mai ne avessi avuto bisogno S. mi stava indirettamente ricordando tre principi psicoanalitici importanti:
uno, che la comprensione mentale non basta per cambiare un comportamento quando l’inconscio ha interesse a metterlo in atto (interesse secondario);
due, che chi ha subito un distacco doloroso, nel suo caso un lutto importante, ha la pulsione costante a restituire l’abbandono, prima di essere divorata dalla duplice angoscia di voler distruggere l’oggetto abbandonico o di subire un nuovo abbandono;
tre, che quando la fantasia prende il sopravvento l’impulso al passaggio all’atto, cioè a trasformare la fantasia in realtà, diventa tanto potente da rischiare di non essere contenuto entro il confine della soddisfazione e dell’equilibrio possibili e necessari. Quindi di spaventare la persona in analisi.
Questi tre principi S. li conosceva mentalmente molto bene, dal momento che ne avevamo reciprocamente parlato in varie occasioni. Avrebbe potuto presentarsi ad un esame di psicoanalisi e recitarli a memoria.
Eppure, ecco che si stava preparando ad agire come se niente fosse mai stato detto.
Sia ben chiaro che in assenza dei punti due e tre la sua richiesta di terminare l’analisi sarebbe stata una bella notizia perché avrebbe sancito il successo della cura.
Invece si era trattato di una richiesta mascherata, di farla uscire da una gabbia nella quale non riconosceva di essere.
A differenza di ciò che succede nella vita reale, dove ad un progetto corrisponde una sua realizzazione, che può riuscire in modo egregio, sufficiente o fallimentare ma comunque è sempre agito, nella seduta psicoanalitica una fantasia ha diritto di vivere come tale purché venga riconosciuta.
Il suo riconoscimento, che dipende dall’abbassarsi del complesso di resistenze utilizzate dal paziente, permette il processo di elaborazione, cioè il passaggio dalla fase confusiva o delirante alla fase di ristrutturazione del comportamento conseguente.
Per tornare al nostro esempio, quando la paziente S. riconoscerà che la sue idea di essere malvoluta e osteggiata, e contemporaneamente di sposare l’analista, non appartiene alla possibilità di realizzazione, ma solo ad un suo desiderio regressivo di avere l’amore che non ha avuto e di vendicarsi di chi non glielo ha dato, allora non avrà più il desiderio di scappare dall’analisi, ma cercherà di uscirne al raggiungimento vero del suo obiettivo di guarigione.
Alfredo Rapaggi