F. era stata una rappresentante di quella schiera di adolescenti che tentano il suicidio, ovvero che rifiutano idealmente la parte di vita che ancora non conoscono.
Ancora una volta la logica della realtà non ci aiuta molto a capire un essere umano se prima non si cerca tra le pieghe oscure dell’inconscio e non si accetta d’indagare su aspetti che si presentano in netta contraddizione tra loro.
La vita di F., fotografata dall’esterno, non era affatto male: genitori della media borghesia con interessi culturali abbastanza vari, una sorella più grande, casa propria alla periferia di una tranquilla cittadina marchigiana, lei studentessa nella città universitaria dove tre anni prima si era brillantemente laureata la sorella.
Non c’era proprio niente, in apparenza, che giustificasse uno scontento così grande da finire in tentato suicidio.
Com’è facile guardare i fatti dall’esterno, e com’è tranquilla una simile visione.
L’inconscio però, questa grande e disordinata memoria nascosta delle emozioni, è molto più complesso e turbolento di ciò che si ammette alla coscienza. Là vi si nascondono tutti i momenti, veri o temuti o immaginati, che non si è riusciti ad affrontare e risolvere nel corso dei tanti giorni e ore e istanti delle fasi precedenti. Sono frammenti emotivi mai catalogati con ordine, come non sono ordinate le nuvole prima della tempesta, che possono riemergere in qualunque circostanza per effetto di una catena associativa agganciata casualmente al presente.
Paradossalmente per esempio, se una persona è amorevole può suscitare in un’altra dei sentimenti di rancore profondo, basta che le ricordi una mamma o un papà, amorevoli solo in una breve parte della vita e poi, anche involontariamente, abbandonici, assenti, o vittime di quegli eccessi di stress che rendono “cattivi”. I due sentimenti contrastanti, protezione e rifiuto, verrebbero inconsciamente riuniti in una successiva persona, provocando una palese contraddizione impossibile da comprendere con la sola logica della realtà.
Molto tempo dopo il suo tentativo F. venne da me, rimase per le tre sedute di diagnosi, più una per l’inizio ufficiale dell’analisi, e scomparve per mesi. In quella prima seduta d’analisi mi portò una foto di quando aveva quattro anni: era per terra, di fronte ad un’altalena e stava piangendo. Nessun adulto vicino a lei. Disse che né sua mamma né sua sorella, e tantomeno suo papà ricordavano l’episodio. Commentai che qualcuno doveva pur avere fatto lo scatto. Si meravigliò di non averci mai pensato ma aggiunse che il dettaglio non le interessava molto perché lei si era sempre sentita sola in quella casa. “Qualunque cosa facessi io non importava a nessuno, qualunque cosa facessero mia sorella o mio papà era sempre un’azione eroica, eccezionale. Loro si lodavano a vicenda e mia mamma li lodava entrambi. Se mia sorella apparecchiava la tavola, per mia mamma l’aveva fatto in modo perfetto, se io mettevo anche un solo piatto avevo già sbagliato. Mia sorella era un fenomeno a scuola, io ero un disastro anche se in fondo i nostri voti non erano così diversi. Cosa vuole che le dica, si vede che lei li sapeva prendere!”
Da che si ricordava lei, suo papà e sua mamma non avevano rapporti intimi e non pareva interessata a sapere perché, ma mantenevano un atteggiamento di alleanza e accordo di fronte al mondo.
“Diciamo che lei era succube di lui almeno fino alla loro separazione ombra, dico questo perché poi sono rimasti nella stessa casa pur avendo entrambi un’altra persona. Io l’ho saputo al secondo anno del liceo, quando avevo appena conosciuto il mio primo ragazzo, e mia mamma me lo disse per avvertirmi che gli uomini sono tutti traditori.”
Sottolineai la parola “primo” perché lei mi sembrava così giovane da non dovermi fare un lungo elenco di ragazzi, ma mi accorsi che la stavo guardando con gli occhi della mia cultura e non con i suoi. Lei continuò sprezzante:
“primo, certo, perché poi ne ho avuti diversi altri ma solo per una o due volte, roba senza importanza, fino alla decisione di farla finita perché gli uomini sono tutti stronzi; il primo è stato il peggiore ma gli altri si sono dimostrati degni della sua bassezza”.
Aveva un tono di voce sfidante, aggressivo, che pungeva più di una spada e molto più di una spada ferivano le parole che diceva, gettate nella stanza come pallottole sparate all’improvviso ogni volta che cercavo di farle ricordare anche sentimenti positivi, se non proprio amorevoli. Proprio come se quel tono aspro e quelle frasi pungenti fossero usate per tenermi a distanza, come a distanza diceva di voler tenere ogni uomo. Infatti, come dicevo, abbandonò l’analisi, cioè me che la conducevo, dopo una sola seduta. Quando ricominciò, mesi dopo, la pratica dell’abbandono divenne abituale, tipo tre sedute si e una no, oppure dieci sedute sì e tre no, e quando cambiò tattica venne con regolarità ma passò alle sentenze e alle offese quasi costanti per un periodo decisamente lungo.
Era davvero il suo modo per restituire, attraverso il transfert, il male che le era stato fatto: le assenze fisiche dei genitori, il sadico soddisfacimento della sorella che era riuscita a cancellare molti degli effetti della sua nascita; la dolorosa indifferenza del papà non meno della palese preferenza che egli aveva accordato alla sorella prima e all’amante segreta poi. Tutto questo, ripetuto per milioni di momenti nell’arco del suo sviluppo, era stato intollerabile per F. che da un certo punto in poi ha cominciato a restituirlo, in modo automatico e inconscio, al mondo.
Era diventata per gli altri, prima di tutto per lo psicoanalista, quello che i suoi genitori erano stati per lei.
Purtroppo si era fermata lì (in termine tecnico diciamo “fissata”, che significa convenzionalmente: ferma dal punto di vista psicologico ad una certa fase senza la consapevolezza di esserlo). Aveva la presunzione, anch’essa “difensiva”, di avere tutte le ragioni a differenza degli altri che ovviamente avevano solo i torti, come li avevano avuti la sorella e i genitori che aveva interiorizzato.
L’adolescenza si sa è un periodo di passaggio, oggi dilatato oltre l’età che fino a ieri sembrava certa: quella in cui si è ammessi al voto civile.
In termini di formazione della personalità un passaggio è una condizione che comprende il materiale del periodo precedente e già fa intravvedere quello del periodo successivo.
Per maggior precisione, si può dire che ogni momento psichico del presente sia un riassunto del passato e una previsione del futuro, basata su quel riassunto. Dunque se quel riassunto è positivo lo sarà anche il modo di affrontare il futuro, se è negativo la previsione sarà ansiogena, perché basata sulla ripetizione dell’idea di possibili continui pericoli.
Per conseguenza ci possono essere momenti che durano molto, pur appartenendo alla fase di passaggio, ma se la persona non è ancora nell’età adulta è possibile che abbia comportamenti altalenanti, con fasi paranoiche, cadute depressive ed esaltazioni quasi maniacali senza che si possa parlare di una vera e propria struttura psico-patologica.
Questo dà agli psicoanalisti la speranza, solida, di poter intervenire con esiti positivi.
Passare dalla latenza alla pubertà vuol dire, in termini positivi, continuare a godere del piacere delle relazioni giocose a cui si aggiunge la curiosità per gli impulsi sessuali che si affacciano appena. Mentre, in termini non positivi, vuol dire trascinarsi dietro i dubbi esistenziali, le proibizioni sessuali, la sensazione di non essere all’altezza in nessuna situazione.
L’adolescenza è uno dei periodi di cambiamento epocali, simile per intensità al passaggio tra la fase orale, in cui l’attaccamento del figlio alla mamma (e viceversa) è indispensabile per lo sviluppo della singola persona, e la fase fallica, in cui invece la pulsione è quella di uscire “dal guscio” e incontrare l’oggetto d’amore che prepara allo sviluppo in senso riproduttivo.
La differenza è che durante la fase orale, diciamo fino ad un anno e mezzo circa, il grado di consapevolezza del bambino è molto basso ed egli non è tormentato dai dubbi esistenziali che caratterizzano invece l’adolescenza. Lo si potrebbe paragonare anche all’altro cambiamento epocale, quello tra la fase fallica e quello della latenza. Anche in questo caso però c’è una differenza importante, direi che siamo esattamente all’opposto come espressione dell’intensità.
La fase fallica infatti (anni due e mezzo-cinque circa) è quella che contiene la prova generale della sessualità, quindi ha una carica libidica incentrata sui genitali, anche se non funzionale alla riproduzione, una carica impiegata nella scoperta del piacere d’incontrare fisicamente l’altro e di portarlo a sé; mentre il periodo successivo (dai sei alla pubertà) è detto di latenza proprio perché quasi privo di carica sessuale.
La latenza è il periodo in cui l’energia è impiegata per rinforzare le capacità intellettive e chiarire le regole del comportamento relazionale. Un periodo in cui il gioco serve a conoscere gli altri: la loro storia, il loro modo di agire e di accettare o rifiutare una certa relazione.
E dopo arriva l’adolescenza, introdotta dalla pubertà: è una sorta di riassunto di tutta l’esperienza infantile, un preambolo che serve per decidere se e come catapultarsi nella vita adulta.
E’ possibile che un adolescente porti con sé il ricordo dei momenti belli in cui era protetto e nutrito, o quelli incompleti in cui la protezione e il nutrimento sono stati promessi e non dati, o quelli infelici in cui non sono stati neanche promessi, oppure dati di malavoglia, con ansia o addirittura con rancore.
L’adolescente arriva a quella fatidica epoca con un bagaglio in cui dover rovistare a fatica per trovare un attimo di luce oppure con una valigia piena di bei ricordi, di sorrisi e di gratificazioni. In questo secondo caso proseguirà per la sua strada senza timori. Continuerà a godersi il calore di una protezione e di un nutrimento che porterà nella sue nuove relazioni e di una consolidata consuetudine ad abbracciare, baciare, toccare ed esprimere amore che rivivrà completamente nei suoi amori adulti.
Se invece consideriamo il caso di tutti quelli che hanno vissuto male la prima parte della vita allora dobbiamo immaginare il contrario.
Com’era successo a F., che ovviamente non capiva perché avrebbe dovuto continuare il viaggio della vita con in testa la previsione di restare la persona sbagliata, non capita, non accettata e non amata.
Non capiva perché mai qualcuno altro avrebbe potuto amarla se non l’avevano fatto le persone che l’avevano messa al mondo.
Il suo punto di vista era completamente deformato dalla sua esperienza precedente, ma lei non lo ammetteva perché non ne aveva conosciuti altri. E ogni mio tentativo di mostrarle un aspetto diverso della realtà o delle previsioni veniva attaccato duramente.
Così è durato per molto tempo e del seguito scriverò poi.