Psiche santa e psiche profana

Psiche santa e psiche profana: un esempio di regressione

“Mia madre era molto religiosa, ma davvero”. Nella penombra dello studio il suo gesto sembra il tentativo di scacciare una mosca fastidiosa e inopportuna, anziché quello di togliersi un’immagine dolorosa dalla mente.

“Mio papà no, ma non litigavano per questo. Litigavano spesso, tutti i giorni in cui si vedevano, ma sempre per cretinate assurde.

Mia madre aveva un’educazione e una morale molto rigide. Una psiche santa, per rendere l’idea. Al contrario, mio papà aveva una psiche profana. Quando mio papà si arrabbiava mia madre era preoccupata solo che non dicesse volgarità davanti a me. Anche se io ad un certo punto ne sapevo più di lui. Si applicava seriamente per vivere secondo la volontà del suo Signore e non mancava occasione per dirci di fare come lei, che avremmo raggiunto la santità. Spesso ho pensato che non avesse mai avuto rapporti sessuali e che io fossi nata per opera dello Spirito Santo. Non rida dottore: l”ho pensato davvero.”

Noto che la mamma la chiama madre e mentre lo dice, io immagino una signora  formale e distaccata, più stile ‘800 che 2000. Una persona a cui forse si è portati a dare del “voi”: una Signora Madre, appunto. Noto, allo stesso tempo, che il padre lo chiama papà: un modo più confidenziale e affettuoso. Un modo più adatto a descrivere il rapporto stretto che ci si aspetta tra chi si sente protetta e chi ha il compito di dare sicurezza e amore in famiglia.

“Mia madre mi ha insegnato tutto, mi ha dato tutto, mi ha protetto e non mi ha fatto mancare niente. A pensarci, deve avermi anche amato, pur non riuscendo a dirmelo fisicamente. Ma questo lo suppongo e basta. Non capisco perché io sia diventata così diversa da lei, così tanto diversa che se adesso vedesse la vita che faccio ne morirebbe di dolore. Eppure io sento di essere più me stessa adesso di quando stavo con lei.”

Il tono è indispettito: sembra che sia arrabbiata con sé stessa invece che con chi l’aveva limitata e censurata, causando involontariamente i suoi difficili conflitti.

Riprende.

“Mi sento ingiusta a parlare così, ma che posso farci?”

Le suggerisco un’immagine.

psiche santa psiche profana un esempio di regressioneLei sembra una leonessa in una gabbia rotonda, che gira intorno molto lentamente, da un tempo infinito. Si muove guardando le sbarre una ad una, e mentre cerca la strada per la libertà pregusta il momento in cui il guardiano le porterà il pranzo e si appresterà a  pulire. Immagina che potrebbe assestargli un paio di zampate di peso e uscire con la massima velocità. Ma lo immagina soltanto, poi si blocca come se pensasse; “non posso fargli questo dispetto.” Pensa che  non può trattare così chi la salva dalla fame e le porta ogni giorno da mangiare.
Gli deve riconoscenza: è questo che pensa, vero?
Capisce che il guardiano la vuole in quella condizione e lei deve fargli il piacere di starci.
Quindi si arrende pian piano alla sua prigionia, riconoscente per il cibo più che arrabbiata per le sbarre.

Nasce su questo principio la sindrome di Stoccolma.  Più diffusa di quanto non dicano le cronache, dagli anni ’70 in poi. Capisco che il paragone sembra forte: mettere a confronto un genitore con un rapitore sembra un’esagerazione gratuita. Eppure, finché non diventano indipendenti, i figli sono in un metaforico recinto alla mercé della madre, poi del padre e via via degli altri adulti. Non avendo termini di paragone, all’inizio, non hanno motivo né forza per ribellarsi ad eventuali forzature. Assorbono, interiorizzano, sopportano una rabbia che li rode ma che non conoscono. Si adattano, modificando persino la tendenza naturale e le loro pulsioni. Pur di piacere a chi li nutre e li protegge accettano tutto per diversi anni, finché il cervello non inizia a funzionare e a provocare delle domande. Accettano anche mentre tentano di formare dei meccanismi di difesa psicologici.

E se si vuole comprendere bene quello che intendo, è necessario osservare ogni tanto il comportamento dei bambini, poi rivedere se stessi alla medesima età. Non è semplice, perché la rimozione e altri meccanismi di difesa coprono molto di ciò che è doloroso ricordare, ma è molto utile. La dimostrazione viene anche dalla giovane signora che sto portando come esempio di “psiche santa e psiche profana”.

Si è rivolta allo psicoanalista perché la sua confusione psichica era diventata troppo difficile da gestire. Ormai era impossibile per lei evitare che la psiche sfogasse le sue tensioni sul corpo, provocando una serie di sintomi costanti e dolorosi.

Ci teneva a ricordare sempre da che famiglia, anzi da che madre proveniva. Si vergognava di descrivere che cosa era diventata. Diciamo che non si era fatta mancare quasi niente, nell’elenco del proibito materno, e che adesso viveva con una donna di cui riconosceva chiaramente i tratti peggiori del carattere della madre. In ogni seduta si lamentava portandomi un numero enorme di esempi della cattiveria di quella donna, della sua assurda possessività. Eppure non la sentivo spontanea, anzi m’induceva a pensare che lo facesse per regalarmi un cestino di soddisfazione. Era come se rivedesse mamma e papà che litigavano e dopo andasse di nascosto da papà a dirgli che aveva ragione lui. Come se lo giustificasse perché quella donna era una vipera. In ogni seduta faceva il proposito di separarsi e puntualmente lo ignorava fino alla volta successiva.

Un giorno finalmente trovò le parole adatte a spiegarsi perché aveva scelto uno psicoanalista maschio. Non religioso come la madre ma laico, come dev’essere uno psicoanalista, idealmente libero come il padre. Aveva capito pian piano il significato della sua metafora “psiche santa e psiche profana”. Un elemento unico con due aspetti emotivi molto ben marcati e distanti tra loro.

In effetti aveva mantenuto il legame con la madre cercando di essere il rovescio della stessa medaglia. Vivendo tutto ciò che per la madre sarebbe stato proibito, a volte scandaloso, era rimasta in costante contatto con lei. C’era rimasta sopportando il peso dei sensi di colpa che pensava fossero da attribuire a questa sua continua disobbedienza.

Ora stava capendo che per conseguenza si era privata per troppo tempo di una parte molto importante della sua vita. Aveva cercato l’uomo nello psicoanalista non avendolo vissuto nel papà. Lo aveva voluto senza limiti, com’è lo psicoanalista nel suo setting, dove il corpo non interviene a limitare la fantasia. Lo aveva voluto lontano dalle sacre limitazioni psichiche della madre, dalla sua chiesa censurante e priva di calore. Lo aveva voluto morbido, come diceva spesso, che rappresentasse forse anche la parte nascosta di quella madre che continuava ad inseguire senza speranza. Ma che fosse accessibile, che le permettesse qualunque emozione e qualsiasi parola. Insomma, che fosse in qualche modo profano.

In verità lo aveva voluto dissacrante prima ancora di venire in analisi e pur di averlo così aveva profanato ogni angolo della morale materna.

Ma ora stava trovando l’altra metà di se stessa e questa volta con una sola censura: non far del male, né a se stessa né ad altri.
In questo modo era finalmente pronta ad essere donna.
Con chiunque volesse esserlo.

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