Morte e vita della bellezza
Palesemente arrabbiato e incurante d’essere visto da altri, un bimbo getta qualcosa ai piedi di una ragazza e si gira di scatto dall’altra parte.
“Brutta e cattiva, brutta, brutta, brutta!”. La ragazza, direi la sua baby sitter, è imbarazzata e cerca di soddisfare quei capricci pur di uscire dalla scena, ma fa molta fatica. Il bimbo si sente potente e non cede. Se ho ben capito si stratta di comprargli un gelato che pare tassativamente vietato dalla mamma.
Quando sarà grande quel bimbo riderà dell’episodio, sempre che riesca a ricordarlo. Più facilmente ricorderà che aveva una baby sitter molto carina e che la faceva arrabbiare per il gusto di strapazzarla. O forse sarà in grado di capire che lo faceva per vincere la sua frustrazione.
In analisi sarà anche in grado di capire che lo faceva per vincere la sua frustrazione. E conoscerà i motivi più profondi del suo comportamento.
Ogni contesto è un mondo unico per ogni persona.
Quel bimbo aveva tutto, visto dall’esterno, ma faceva i capricci, abbruttendo se stesso e la sua baby sitter, pur di raggiungere il gelato proibito.
Ma esiste anche il contrario.
A me, per esempio, hanno sempre meravigliato e attirato le persone che sorridono, di un sorriso buono, mentre una parte del loro corpo è colpita da malattie deturpanti irreversibili, o da traumi invalidanti.
Le trovo bellissime nella loro forza. Sembra che siano intente a raccogliere una particolare selezione di cose belle dal giardino rovinato della loro esistenza.
Penso a Stephen Hawking e alla sua strabiliante determinazione nel rendere ammirevole e bella, la propria vita, nonostante la tremenda malattia.
A volte ho immaginato che la mia fosse una logica reazione alla massa di dolori, di angosce, di depressioni che mi portano i pazienti, ma in verità mi ricordo così da sempre.
Amo in modo viscerale il bello, ho sempre gioito nel cercare il bello ovunque sia possibile.
Soprattutto il carattere bello.
Lo amo tanto da combattere ogni giorno i suoi principali nemici: l’ansia prima di tutto, le censure, la paranoia, poi la rabbia, il dolore, la depressione.
Non che io sia immune da momenti di sconforto, dal ricordo di giorni difficili; non godo di privilegi di questo tipo anzi, sono cresciuto in loro compagnia.
Basti pensare che sono nato nel bel mezzo della seconda guerra mondiale, in centro città, di fronte al carcere, a due passi dalla bombardatissima caserma di polizia, chissà perché posta a fianco dell’ospedale (!). Praticamente un bersaglio fisso.
Ne ricordo ancora tanti di momenti di paura, ma li ho coperti dal desiderio di vivere in allegria, certamente aiutato dalla mia numerosa e molto energetica famiglia.
Ho vissuto in un clima dove il tragico veniva coperto da metafore e scene d’immaginario teatro, che ricostruivano la realtà in modo da farla sembrare sempre accettabile e magari divertente.
Per esempio quando suonava l’allarme e bisognava correre in cantina perché stavano arrivando le bombe, succedeva qualcosa di particolare. La mia “dada”, napoletana, mi chiamava “gallinè” perché quando ormai stavano tutti scappando, lei mi metteva in un cestino, proprio come fossi una gallina. Dovevo essere proprio piccolissimo. E neanche tanto bello per lei. So che rideva e rideva ogni volta che ne parlava, tanto che anch’io ho imparato a riderci su. Lei aspettava di avere un certo pubblico per mettere in scena, alla napoletana appunto, il suo spettacolo. Con ampi gesti e particolari sempre nuovi, inventati con la creatività tipica sua e della sua gente.
Devo essere stato il suo spasso preferito e il suo testimone, tanto involontario quanto fasullo.
Ma ero piccolo.
Altri ricordi li ho più chiari perché ho fatto in tempo a camminare e correre da solo, prima che la guerra finisse.
Ma forse proprio allora ho imparato che ogni episodio ha sempre una fine e che la fine è l’inizio di una bella ripresa.
Ogni bombardamento iniziava con l’angoscia di qualcuno per ciò che sarebbe successo, ma poi finiva nella gioia di ritrovarci ancora in gruppo, sani e salvi.
Non è stato così per tutti, certo, ma questa è stata la mia esperienza e ciò che ricordo: che c’è sempre la fine della paura e del dolore, che alla fine si festeggia, si rimuove il brutto e ci si prepara a vivere con più entusiasmo di prima. E poi, a ben pensarci, quasi tutti avevano il loro modo di difendersi dall’ansia della tragedia.
Per esempio, l’aereo che bombardava in città lo chiamavano Pippo, (ma suppongo che fossero più d’uno). Un nome obiettivamente poco spaventoso, anzi proprio buffo, una sorta di presa in giro.
L’ironia sopra il terrore.
Se devo dirla tutta, da bambino non capivo perché la gente avesse paura di Pippo, anche se mi univo al gruppo.
Suonava la sirena, e questa mi piaceva, si stava in casa a luce spenta, tutti assieme, parlando a voce bassa come se Pippo potesse ascoltarci da dietro la porta. Non ricordo esattamente cosa provassi io, ma ho la percezione di qualcosa di bello, di un’atmosfera calda, protettiva. Pippo era un estraneo, lontano anche quando gettava le sue bombe vicino a noi. Era fuori casa mentre il gruppo era dentro.
Quel gruppo non si è mai scomposto, siamo rimasti tutti uniti finché Pippo non ha smesso di volare sul cielo della città.
Mi sentivo forte.
Poi arrivavano i botti, come in un temporale, e duravano un attimo, per quel che ricordo. Finiva di suonare la sirena e si riaccendeva la luce. Applauso, come in un atterraggio finito bene.
Quando ritrovai lo stesso nome in un personaggio di Walt Disney ricordo che mi divertii ancora di più: era la dimostrazione che non valeva la pena spaventarsi tanto per un pippo qualsiasi. Anzi, trovai che nella sua faccia così irregolare e bislacca quel cane era persino bello.
Oggi riconosco questi pensieri come meccanismi psicologici di difesa: trasformare il tragico in comico è una valida strategia, procura un apprezzabile sollievo.
Ma dopo la guerra è successo qualcosa d’inaspettato.
Le persone si erano molto impegnate ed erano riuscite a conquistare quella certa agiatezza che anni prima avevano solo sognato, per la quale avevano anche sostenuto lotte sociali dure. Avrebbero dovuto essere felici e per un certo periodo forse lo sono anche state. Ma presto è tornato il terrore, anche se sotto forme diverse: più subdole, più ingannevoli, più accettate.
Come se Pippo si fosse sparso nell’aria e avesse continuato a bombardare i cervelli e i cuori della gente, di nascosto.
E senza la sirena di avvertimento.
Di più: come se la gente non riuscisse più a difendersi come faceva prima.
Ho dovuto fare un bel po’ di strada per capirci davvero qualcosa.
Per capire che il pippo peggiore è quello che vive e si sviluppa dentro le persone.
E’ l’ignoto temuto il più pericoloso, più che il pericolo reale.
E’ la previsione d’essere abbandonati che ha preso il posto dell’esperienza traumatica di perdita.
Una paura divenuta ansia ha prevalso su gran parte dei meccanismi psicologici di difesa, forniti dalla natura.
E’ la paura assorbita in famiglie sempre più attente a raggiungere il benessere materiale che non a formare gruppi armoniosi. Mal guidate da governanti troppo attenti alla carriera e spesso incuranti del destino dei distratti cittadini.
Una paura distribuita dalle televisioni nell’ora dei pasti, con le immagini di guerre e disgrazie sempre più crude che entrano nel cervello per la via più breve e meno difesa. Una paura gettata sulla tavola mentre le persone dovrebbero gustare il loro cibo in pace, contente di ritrovarsi insieme e ringraziare chi ha lavorato per preparare quel momento.
Immagini di pericoli, passate attraverso cartoni animati regalati ai bimbi per tenerli buoni durante il giorno. Immagini e voci di genitori via via più stressati dalle nuove artificiali “esigenze” della vita.
Eccolo il Pippo peggiore: quello che bombarda la mente in modo così insistito da diventare previsione e persino profezia che si auto avvera.
Finita la guerra, la paura è rinata come se nel cielo continuassero a volare i vari e minacciosi pippo che avevano devastato le città.
Questo ha potenziato meccanismi di resistenza inutilmente forti: vere e proprie armi psichiche che hanno sempre bisogno di pericoli immaginari per giustificare la loro esistenza.
Niente di bello in tutto questo.
Niente di bello nel terrore di non riuscire a vivere senza la protezione di un clan, brutta copia di quel gruppo che da piccoli si chiamava famiglia e che è stato indispensabile a farci crescere.
Niente di bello se da grandi si sente il bisogno di costruire soprattutto delle mamme e dei papà sostitutivi da cui farsi soffocare, per paura che arrivi un metaforico pippo a bombardare la vita.
Questa è la paranoia che migliaia di pericoli, sognati più che reali, continuino a minacciare ogni momento l’incolumità della psiche.
E’ quello il pippo dei giorni nostri, che bombarda di brutte notizie, d’impegni da svolgere con urgenza, di tante irraggiungibili illusioni e relative immancabili delusioni.
Ecco che cosa intendo quando parlo della bellezza.
Parlo del carattere di chi lotta contro ostacoli veri, piccoli e grandi. E piange a volte, ma ci prova sempre a progredire e spesso sorride.
Parlo di chi è colpito da sfortune importanti, che stroncherebbero chiunque, ma trova la forza di superarli e di sorridere ancora.
Questa è la vera bellezza dell’essere umano.
L’ansia di chi si rifugiava in un cantuccio, a tremare al primo suono di sirena, immaginando la distruzione totale, è la stessa di chi oggi chiude la sua porta con sbarre a doppia e tripla mandata con l’ansia che entri uno sconosciuto a distruggerle la vita.
Mentre però quella di allora finiva a fine bombe, quella di oggi pare non aver fine.
E’ troppo spesso alimentata ad arte e trova terreno fertile in chi non sa più sorridere alla vita.
Molti non si accontentano più di chiudersi in casa, nessuna porta è più sicura per loro, c’è anche chi ringhia contro chiunque non appartenga alla propria cerchia, alla propria cultura, alla propria razza, persino alla propria classe di forza. C’è chi dimentica d’essere figlio e nipote e fratello di un popolo a sua volta emigrato in ogni angolo della terra, per la fame o per le bombe, e minaccia chi adesso cerca rifugio come e dove può.
Rivoglio la bellezza di chi non si arrende e sorride mentre “ogni pippo” del mondo cerca di spaventarlo. Di chi sa che passerà anche il brutto pippo attuale e che sulle macerie che ha fatto verranno costruite altre case, più belle e moderne delle precedenti.
Rivoglio l’energia positiva di chi la guerra non la vuole più e fa di tutto perché non si produca l’odio che sempre la provoca.
Perché la guerra, ricordiamocelo sempre, è soltanto la somma di migliaia di sentimenti odiosi, quotidiani, che s’incontrano, si sommano, si scontrano, formano valanghe incontrollabili e finiscono per scoppiare.
Le guerre nascono dal rancore e finiscono nel cinismo.
Voglio la bellezza della pace vera, individuale prima che collettiva.
Perciò dobbiamo continuare a lavorare perché i rancori cedano il posto alla comprensione e dobbiamo unirci a chi ha già imparato a farlo.
Infine, davvero l’ultimo desiderio, vorrei la bella saggezza di chi capisce quando è ora di salutare e sorride a chi resta, cercando di regalargli la propria voglia naturale di scoprire, di creare, di aiutare con sincera allegria, e di non arrendersi mai.