A chi ama le risposte brevi e immediate regalo la seguente frase: “l’antidoto della solitudine è la solitudine”.
Sembra un principio di tipo omeopatico ma è più complesso, come lo sono le caratteristiche della psiche umana.
La solitudine è una condizione che può appartenere al carattere naturale o che può essere indotta dall’ambiente.
Nei dizionari d’italiano troverete che la solitudine può essere una scelta dell’individuo o una condizione attribuibile a fatti casuali, oppure una forzatura dell’ambiente esterno.
Ma come si vede la differenza sta nel considerare o meno la tendenza naturale.
Una persona, equilibrata nella sua introversione naturale, cerca la solitudine come un gatto cerca il caldo della casa.
Una persona, equilibrata nella sua estroversione naturale, cerca il gruppo come un uccello cerca lo stormo a cui unirsi.
Ma noi sappiamo che l‘equilibrio è uno stato non così facile da mantenere e ancor meno da riconquistare.
Da quando si nasce a quando ci si specchia in modo consapevole, passano tanto tempo e tante esperienze, che spesso non riconosciamo più la nostra immagine.
Sappiamo che l’evoluzione passa attraverso ostacoli che segnano il carattere e provocano svariati momenti di disequilibrio.
Sappiamo anche che questi momenti possono ripetersi a lungo e che assumono importanza variabile, tra il poco e il troppo.
Ebbene, se una persona naturalmente estroversa viene portata all’introversione, ovviamente contro la propria volontà, dirà che si trova bene in certi momenti di solitudine.
Ma se si scava appena un po’ nei suoi vissuti si capisce facilmente che quei certi momenti sono un distacco dalla confusione nevrotica, non dal gruppo in quanto tale. Sono una richiesta di tregua, una pausa rispetto al conflitto esagerato tra condizione naturale e pressioni interiorizzate dall’ambiente.
Lo stesso tipo di persona soffrirebbe moltissimo la condizione di solitudine, se invece di durare il tempo di una pausa, cercata, durasse giorni, settimane o addirittura mesi e anni. Poco o tanto si ammalerebbe.
Un principio simile, in fondo, vale anche per l’introverso.
La condizione preferita è sempre quella naturale, nel suo caso la possibilità di stare da solo.
Ma guai se fosse costretto ad isolarsi.
Se dovesse scegliere come meccanismo di difesa la solitudine, anche se questa è certamente quella per lui più congeniale, gli sarebbe troppo facile, col tempo, precipitare nel bunker della paura e dell’odio verso il mondo.
Il suo grande nemico sarebbe proprio il suo tratto più naturale: la tendenza a star solo.
E’ chiarissima la differenza tra scegliere la solitudine ed essere portato a viverla dal rifiuto dell’ambiente o dalla sua pericolosità.
Il grande bacino dell’inconscio trattiene le emozioni che non hanno mai trovato uno sbocco verso l’esterno e le trasforma in fantasmi, che la persona vivrà per sempre come veri esseri umani.
Nel corso della vita i fantasmi troppo ingombranti verranno proiettati su persone vere, esterne ma adatte a ricevere le proiezioni.
Ed ecco il principio della paranoia: le proiezioni sono inconsce quindi il soggetto non si accorge della trasformazione che fa dei fantasmi, e teme e attacca le persone reali.
In conclusione: sia per l’estroverso che per l’introverso la condizione di solitudine è deleteria quando è una forzatura.
E allora la chiave per eliminare o contenere il dolore sta in un lavoro sulla conoscenza, sulla qualità e sulla durata della solitudine stessa.
L’antidoto è là: è quella parte di personalità che si è ritirata e non viene più riconosciuta come propria.