Il permesso di vivere e quello di morire
Intorno al 1970.
Mentre mia sorella cammina spedita tra i fiori appassiti e quelli finti, badando di non calpestare le lapidi a terra, la mia fidanzata si ferma e la chiama. Ha trovato lei quello che stavamo cercando noi: la tomba del casato d’origine di mia mamma.
E’ strano, penso, che mia sorella non l’abbia vista, strano anche perché è grande, non dovrebbe passare inosservata, soprattutto a chi la conosce già come lei.
E’ sotto il portico, nella parte vecchia del cimitero, dove tante sono quelle dimenticate, o trascurate, da parenti ormai troppo distratti o troppo lontani.
Ci fermiamo a ricordare gli zii e i cugini che abbiamo conosciuto personalmente, o per fama.
Sono parecchi, in ordine per famiglia e ruolo. Alcuni sono stati importanti, e lo dico con un certo orgoglio e un pizzico d’invidia.
Ma ne manca uno.
Io lo ricordo bene quando veniva con la sua fedele Lambretta e il cane da caccia, ancor più fedele, buono buono davanti al suo sedile.
Non era una bomba di estroversione, ma forse proprio per questo io mi sentivo in sintonia con lui, con quella sua riservatezza. Non ricordo altro, a parte il fatto che era più grande, eppure fu doloroso per me sapere che era morto, anzi “mancato” come dissero in famiglia.
Mentre parlo, mia sorella si è allontanata di nuovo ma questa volta la chiamo io, un po’ seccato. Voglio sapere che cosa c’è che non va. Perché manca quel nome e perché lei mi sfugge.
Si avvicina e mi guarda con aria di rimprovero, come per farmi tacere.
Poi sbircia di sfuggita la mia fidanzata come a dirle di spostarsi un po’ che quello che deve comunicarmi non la riguarda.
Non sono d’accordo: mio cugino non è stato un delinquente di cui vergognarsi, di questo sono sicuro, anche se non ricordo più i dettagli, se ho rimosso quasi tutta la sua vita, so che era buono, semmai troppo buono.
Non era un violento, non era un drogato, non frequentava “cattive compagnie” (espressione che significava stare dentro le usanze della famiglia). All’epoca sarebbe stato uno scandalo anche se fosse stato gay ma nemmeno di questo è mai stato accusato in modo manifesto.
Perché allora, lei tiene lo sguardo a terra e cerca di parlarmi a voce bassa?
Insomma, insisto. Insisto finché non mi dice, tra i denti, che la famiglia non poteva scrivere il suo nome. Non per cattiveria, precisa, ma era proibito.
Uffa, che pesantezza, ma perché proibito.
Cos’era successo di così grave da impedire che un morto possa essere ricordato per sempre, al pari dei suoi familiari?
La mia fidanzata capisce più velocemente di me e mi sussurra la fatidica parola: suicidio.
A quel punto mia sorella pare sollevata, la sua bocca è rimasta pulita, e spiega meglio: per la chiesa cattolica, uno che si suicida commette “un peccato pubblico e manifesto a meno che non sia intervenuto un pentimento accertato”.
Un peccato, ma dai!
Quale peccato?
“Il peccato sta nella pretesa di disporre della propria vita.”
E’ sicura nel rispondere mia sorella. “Nessuno, per il diritto canonico, può disporre della vita degli altri o della propria”.
<Sono messe sullo stesso piano?> chiedo meravigliato, ma stavolta non ricevo risposta alcuna.
E allora rifletto da solo.
A parte il fatto, per me mostruoso, che sua mamma abbia preferito salvare le apparenze, anche ubbidendo al dictat della religione, piuttosto che chiedere a tutti, pubblicamente, con orgoglio, di ricordare affettuosamente suo figlio, qualunque tipo di morte avesse fatto.
Penso che di una persona sia importante ricordare la vita, il carattere, quello che ha fatto per gli altri, quello che ha gioito, quello che ha sofferto, quello che ha lasciato, ma non certamente come ha deciso di morire.
Siamo seri, se tuo figlio, signora zia, avesse avuto una forma forte di depressione, cioè una seria malattia psichica da cui non fosse riuscito a liberarsi?
La risposta di mia sorella è perentoria, ed è grave per me: “qualunque sia il tipo di malattia, della vita dispone solo Dio”.
Sentimenti zero?
Posso ammettere che per togliere la vita ci voglia comunque un atto aggressivo, ma non tocca a noi giudicare se quell’atto sia stato a fin di bene o a fin di male
Chiarisco: per salvare una persona in pericolo ci vuole un atto di forza, aggressivo. Ma è utile, non è certo condannabile.
Per far del male ad una persona si ricorre ad un atto aggressivo ma quello è dannoso, è moralmente condannabile.
E questa mi sembra la prima differenza.
Poi ce n’è una seconda e riguarda l’obiettivo: verso chi viene rivolto il gesto aggressivo.
La mia domanda è “perché una persona non può decidere della propria vita, allora che proprietà sarebbe?”
Lo chiedo seriamente: di chi è la mia vita? La vita che si dice propria di chi è veramente, vogliamo parlarne?
E poi c’è quello di cui ho parlato prima, e cioè il presunto diritto di giudicare. Anche in questo caso vorrei che si chiarisse chi può farlo e perché.
La risposta data da mia sorella, e dal mondo che rappresenta, non l’ho accettata allora e non l’accetto oggi, per due motivi.
Il primo è che una persona gravemente depressa, o comunque disturbata, ha momenti in cui non è a contatto con la realtà, quindi non ha la possibilità di decidere. Non è responsabile della sua decisione.
E questo si scontra con il principio cattolico che bolla un’azione come peccato grave, solo se decisa in piena coscienza.
E poiché nessuno era presente quando mio cugino si è tolta la vita, resta come minimo il dubbio. Era cosciente?
Questo avrebbe dovuto bastare per dargli una sepoltura come a tutti gli altri e per mettere il suo nome in evidenza su quella grande lapide insieme al resto della famiglia.
Però oggi, con informazioni più complete, mi faccio due domandine.
Intanto mi chiedo se mia zia non si fosse molto arrabbiata perché quel suo figlio aveva deciso, più o meno deliberatamente, di lasciarla all’improvviso, oltretutto svergognando il prezioso nome della famiglia di suo marito.
Mi chiedo se non sia stata una vendetta, quella di non volerlo più sentir nominare. E se si sia resa conto di averlo così ucciso una seconda volta.
Poi vi aggiungo il dubbio che possa essere stato anche atto di estrema possessività, quello di cancellare persino il suo nome dalla memoria pubblica. In modo che nessun altro potesse più averlo, nemmeno nel nome scritto al cimitero.
Ma tornando al motivo per cui non accetto la risposta di mia sorella, c’è un secondo e ben più importante motivo di discussione: quello che si aggancia alla mia domanda e riguarda la proprietà della propria vita.
In altre parole: la libertà di vivere, quando si possa scegliere.
Riguarda tutti.
Ora non ne faccio una questione legale.
Quella la sbrigano i politici delle varie nazioni, i quali hanno interessi molto diversi dai miei.
A me interessa favorire la comprensione della vita, in modo che ognuno possa decidere secondo la propria, e altrui, felicità.
Liberamente, cioè prendendosene la responsabilità.
Dunque partiamo dal presupposto che Dio esista, presupposto indiscutibile della mia famiglia d’origne, e che sia quello descritto dalla religione cattolica. Discorso poco ecumenico ma ancora molto in voga.
Solo Lui può disporre della vita umana, è questo che condanna il suicidio.
Giusto?
E’ così, oppure interviene il fatidico principio del “libero arbitrio” a cambiare le regole?
Sembra una questione di lana caprina, ma è importante quando viene in terapia psicoanalitica una persona in qualunque modo autodistruttiva (per dipendenza o per depressione per esempio).
Dunque come possiamo, io e tutti i miei colleghi, aiutarla a capire se non ci siamo mai posti la domanda e non se non abbiamo trovato una risposta plausibile?
Teniamo presente che ci sono molti modi di suicidarsi, continuando più o meno a respirare.
Tra l’altro, molti modi fanno del male anche agli altri, oltre che al soggetto autodistruttivo.
Avete presente quanto male fanno alla famiglia un etilista, un tossicodipendente, un giocatore accanito, un violento, o anche un semplice fumatore/trice che non si controlli davanti ai figli?
E perché questi modi non sono dichiarati peccati altrettanto gravi da impedire delle esequie e il ricordo perenne?
Allora, chi può disporre della vita di una persona: se stessa, sua madre, suo padre, lo stato, il partner, o Dio?
Insomma, ditemi la verità se ce l’avete.
E chi dispone della sua vita quando una qualsiasi sostanza, o pulsione, le ruba il cervello prima che riesca a fermarsi?
E’ Dio?
Oppure è quel fenomeno del cosiddetto “libero arbitrio” che l’ha spinta verso un burrone che lei stessa avrebbe desiderato?
E come si spiega la contraddizione tra il libero arbitrio e il principio per cui solo Dio può disporre della vita?
E’ possibile che In certi casi Dio rinunci al suo potere, sarebbe la spiegazione più ovvia.
Ma quando succede non si sa. Come non si conosce il perché lo farebbe. Per esempio quando scoppia una guerra vuol dire che Lui ci ha rinunciato?
Però quando la guerra finisce, i fedeli corrono a ringraziare Lui (o qualche suo mediatore) per aver messo fine alle loro sofferenze. Dunque gli riconoscono il potere. Ma se Lui ha avuto il potere di farla finire, la guerra, deve avere avuto anche quello di farla cominciare, è logico?
Arrivati a questo punto, le persone religiose che ho incontrato si fermano, spengono il cervello e si rifugiano dietro la fatidica frase che rimette ogni spiegazione nel mistero della fede.
Ne hanno diritto naturalmente. Come io e altri abbiamo il diritto di continuare a cercare le risposte logiche.
Ognuno ha il diritto di usare la sua intelligenza come vuole purché, ovviamente, non faccia del male agli altri.
Ciò che penso è che l’essere umano non riesce più a rispondere, esattamente quando sarebbe giunto il momento di uscire dalla rigidità mentale e continuare a cercare.
In psicoterapia questo è palese. Uno stop è praticamente sempre il segnale che la persona è pronta per aprire una traccia importante della sua analisi, e che le resistenze producono l’ultimo disperato tentativo d’impedirlo.
La scienza può non aver fatto ancora un certo tipo di scoperta, ma la storia ci ha dimostrato che è solo questione di mezzi e di tempo.
In ogni caso, la nostra natura di esseri intelligenti ci porta a tentare sempre delle supposizioni che ci portino da qualche parte, sempre più avanti.
Io non ho e non intendo avere la verità in mano, quindi non so perché mio cugino si sia tolto la vita e non sono poi così curioso di saperlo.
So che un giorno andrò a riscrivere il suo nome su quella grande lapide, se nessuno l’avrà già fatto.
Perché si sappia che anche lui ha vissuto insieme a noi. Perché lo si ricordi al pari di tutti gli altri. E con quel gesto intendo riscrivere simbolicamente il nome di tutti quelli che sono stati cancellati ingiustamente, ovunque, per i motivi più disparati.
Non ho la verità in tasca, anche perché penso che la verità sia l’evoluzione stessa dei sentimenti e del pensiero.
La verità umana, qualora esistesse in assoluto, non potrebbe fermarsi e restare sempre la stessa per un tempo infinito.
Io l’ho vista cambiare tante volte ormai, che sorrido quando c’è ancora chi tenta di mettermela in tasca già confezionata.
Penso che la verità sia quella che troviamo giusta giorno per giorno, mentre cambia la cultura, mentre cambiano le persone stesse e il loro modo di vedere l’universo.
Anche sul tema grandissimo della vita e della morte.
Del diritto che abbiamo di gestire la nostra personale vita e la nostra personale morte, finché non procuriamo del male ad altri, indifesi