Oggi parlo dei conflitti possibili tra fratelli, tra colleghi e tra persone di uno stesso gruppo.
Per farlo prendo spunto da una storia che ci riporta alla Roma imperiale.
Eccola.
L’imperatore romano Settimio Severo ebbe due figli: Caracalla e Geta.
Volendo essere giusto, pensò che ognuno dei due avesse diritto ad ereditare metà del suo vasto impero.
Dopo la sua morte, Caracalla e Geta iniziarono dunque a governare insieme, sotto lo sguardo attento della potente madre, Julia Domna.
All’epoca Freud era un illustre sconosciuto, quindi né Geta né Caracalla né i loro genitori, avevano avuto informazioni circa le nevrosi familiari.
Settimio Severo è passato alla storia come l’imperatore generale, perché aveva dedicato quasi tutta la sua vita alla guida dei suoi eserciti. Conosceva tutto sull’arte della guerra ma aveva trascurato la propria famiglia e anche la propria salute. Morì di gotta, fine poco onorevole per un grande combattente.
Quanto ai suoi figli, non aveva considerato che due fratelli più la madre fanno un triangolo affettivo ancora più pericoloso di quello edipico, che Freud avrebbe descritto secoli dopo.
Infatti, il genitore riesce a contenere le emozioni positive e negative che si sviluppano in famiglia, molto meglio di quanto possa fare un semplice fratello.
Perciò, il governo dei due fratelli neo imperatori durò veramente poco.
Il loro disaccordo era tale che presto iniziarono a dividersi il palazzo imperiale e a muoversi al suo interno cercando di non incontrarsi e accompagnati, ognuno, dalle proprie guardie.
Un giorno, approfittando del suo ascendente sul più giovane Geta, Caracalla lo convinse a raggiungerlo discretamente nella sua stanza, per cercare un accordo bonario, senza le guardie del corpo, per mettere fine a quella situazione grottesca.
Ma finì come si può immaginare.
Caracalla fece uccidere il fratellino, pensando così di ottenere un duplice successo: eliminare la sua fastidiosa gelosia e restare l’unico imperatore .
La storia, per quanto tragica, non sembra neanche tanto originale. Pensiamo alla leggenda biblica di Caino e Abele, o a quella di Romolo e Remo o alla storia più reale dei fratelli Borgia, solo per fare qualche esempio.
Ma la parte eccezionale è il seguito perché Caracalla fece molto di più.
Morso dai sensi di colpa, egli cercò di togliere dalla memoria di tutti, ma soprattutto dalla propria, la figura del fratello rivale.
Dopo averlo ucciso lo fece condannare alla “damnatio memoriae”: all’epoca era la cancellazione di tutti i segni che potevano ricordarlo in qualunque modo. Fece persino togliere il suo viso da dipinti in cui era con il resto della loro famiglia. Ogni traccia della sua esistenza doveva sparire per sempre in modo che egli sarebbe rimasto figlio unico agli occhi del mondo.
Voleva spegnere quel tormento infinito che lo lacerava, ma l’assassinio e le sue successive azioni malvage avevano aggravato la sua rabbia feroce. Invece di spegnerla.
Decise di spingersi oltre: fece condannare a morte tutti gli amici, i seguaci e persino i conoscenti del fratello.
Ma nemmeno così trovò la pace.
Rimasto solo con la madre, la sua paranoia inventò altre vittime. La sua psiche vedeva ormai ombre giudicanti e pericolose ovunque.
Si convinceva sempre di più che la gente mormorasse malignamente alle sue spalle: le sentiva come se le avesse vicine.
Un giorno seppe che ad Alessandria, in un banchetto popolare, lo avevano deriso apertamente spargendo la voce che avesse rapporti incestuosi con la madre.
Vera o falsa, quella voce lo fece infuriare a tal punto che ordinò di radunare circa 20.000 persone con la scusa di una nuova grandiosa festa e le fece uccidere tutte.
Il fratricidio fa parte delle malvagità dell’essere umano,
tanto che presso alcuni popoli, per esempio gli ottomani, era regolato dalla legge per spiegare le azioni omicide tra parenti pretendenti al trono.
Ovviamente si tratta della manifestazione estrema, ripeto estrema, di un complesso che invece è molto diffuso nelle sue forme più lievi: la lotta triangolare tra fratelli, ma anche tra colleghi oppure tra partecipanti allo stesso gruppo.
L’ho chiamato “complesso di Caracalla” per agganciarlo all’esempio più clamoroso che conosciamo.
Lo schema è semplice: due contendenti e un solo premio. Lo schema è uguale a quello edipico, ma il fine è diverso da quello sessuale e la sua realizzazione è deleteria anziché necessaria e benefica.
Le sue fondamenta sono nel bisogno del possesso e del dominio, il suo traguardo è il trionfo narcisistico.
Nel complesso edipico il premio è il genitore di sesso opposto, vero o immaginario, e il suo superamento è il passo necessario per l’evoluzione, per la successiva maturazione sessuale.
Diversamente, nel complesso di Caracalla il premio originario è la madre, vera o simbolica, qualunque sia il genere di persona in lotta.
Inoltre, al posto del superamento di quella fase c’è lo stallo, la fissazione che inchioda il soggetto all’illusione di restare per sempre, e per diritto, il preferito o il solo.
Per un bimbo o bimba piccoli, niente è più importante dell’amore protettivo e nutritivo della madre.
Poi i bimbi diventano adulti e quel primo e più importante premio può tradursi in mille altri traguardi da raggiungere. A questo punto va notata la differenza tra sano agonismo e nevrosi narcisistica.
La voglia di far carriera, quella di primeggiare in un gruppo, quella di conquistare la ragazza o il ragazzo preferiti assumono aspetti diversi a seconda dell’equilibrio con cui si agisce.
La differenza tra naturale pulsione ad avanzare nella vita e complesso di Caracalla sta nella quantità di energia che si fissa nel fantasticare di raggiungere un obiettivo che è impossibile nella realtà.
Per esempio è impossibile che un primogenito diventi figlio unico. Anche se uccidesse il fratello sarebbe un primogenito assassino ma non un secondogenito o un figlio unico.
Ora, quando la fantasia si dilata al punto da invadere il campo della realtà diventa delirio. La persona che segue il delirio non ha più il controllo delle proprie azioni.
A questo punto il fenomeno può rimanere nell’ambito di una normalità apparente, magari gestita con l’aiuto di psicofarmaci.
Oppure può sfociare in una serie di gesti pericolosi contro gli altri.
Ma più facilmente contro se stessi, per effetto di quel meccanismo di difesa psichico che si chiama “rivolgimento contro il Sé”.
Tra parentesi, Caracalla morì pugnalato alle spalle quando aveva solo 29 anni. La sua paranoia l’aveva portato a spargere veleno e sospetti intorno a sé, fino al punto in cui il suo vicario a Roma, mentre lui si preparava alla seconda guerra contro i Parti, gli tese una trappola forse involontaria ma fatale. Quel vicario si chiamava Maternario (da mater = madre). Suona un po’ come la vendetta della madre per l’assassinio di Caracalla sul fratello minore.
Ma questa è una mia libera interpretazione.
Il dato di fatto è che il veleno sparso tra le persone intorno a sé si è trasformato in atto violento contro la sua persona.