Ho sempre trovato efficace l’apporto dello psicodramma, della bioenergetica di Lowen, e di altre tecniche attive, in una psicoterapia contro alcune forme di depressione.
L’apporto significa l’aiuto, un elemento aggiuntivo rispetto alla normale psicoterapia psicoanalitica.
Ma è in sede di supervisione agli psicoterapeuti che tratto di come si può intervenire rispettando entrambe le modalità.
Quanto invece alla ricerca delle cause ne segnalo due, una più profonda dell’altra.
La più superficiale riguarda un meccanismo di difesa automatico e inconscio, normalmente riconosciuto: il “rivolgimento contro il sé”.
In altre parole l’azione psichica di riportare su se stessi una serie di fantasie aggressive, inizialmente dirette contro una persona ritenuta cattiva.
Sto descrivendo qualcosa che accade nella prima parte della vita quando il valore delle fantasie aggressive è semplicemente istintuale e legato all’enormità delle angosce di cui può essere vittima un bimbo ancora inerme.
Queste fantasie si assembrano a livello inconscio per risolvere un primo importante problema: quello dell’angoscia da distacco. La stessa che si dovrebbe sopportare se la persona bersaglio dovesse restare veramente vittima dell’aggressività fantasticata.
Immaginiamo che il bersaglio principale sia la madre: come farebbero una bimba e un bimbo piccoli a restare senza la propria mamma?
In effetti non potrebbe esistere nemmeno la fantasia se non fosse supportata da un pensiero tipico e residuo della fase simbiotica: il pensiero onnipotente.
Una prima causa dell’utilizzo del “rivolgimento contro il sé” è il pensiero onnipotente di essere capaci di affrontare questa angoscia da soli, salvando dalla morte il bersaglio della propria ferale aggressività.
In effetti bisogna essere dei fenomeni extra umani per desiderare che si avverino due fantasie così contrastanti, come eliminare qualcuno impedendo che venga eliminato.
Una seconda causa si pone sotto forma di domanda: se è vero come è vero che biologicamente noi cerchiamo sempre la soddisfazione, cioè una scarica energetica piacevole, dove la troviamo in questo caso?
E’ sufficiente dire che si tratta di un meccanismo di tipo masochistico, cioè del trovare un piacere nel dolore che si rivolge a se stessi?
Io non mi accontento, salvarsi da un’angoscia non è ancora darsi un piacere, anche se si prova un momentaneo sollievo, tanto più che le conseguenze possono essere molto ma molto dolorose per tutta la vita.
Chi conosce la depressione ne sa qualcosa.
Prendiamo un esempio.
Mi riferisco ad una bimba trattata dalla mamma in modo molto disequilibrato: rapporto simbiotico in cui la bimba doveva restare sempre attaccata alla mamma mentre questa si occupava di altre persone o di divertirsi con le amiche. Il messaggio era dunque “sei mia ma non m’interessi”.
In altri casi doveva fare solo quello che voleva la mamma e se sgarrava erano botte violente. Le botte diventavano particolarmente crudeli se la mamma la scopriva a toccarsi le parti intime. Anche in questo caso il messaggio recepito era fortemente contraddittorio: ti ho fatto con parti molto sensibili al piacere ma guai a te se le usi.
Sto parlando di quando la bimba aveva dai 2 ai 18 anni circa e sto riferendo il riassunto dei suoi racconti.
Ebbene, quando io ho provato a farle da specchio, criticando la madre, questa persona l’ha difesa come se avesse paura che le demolissi una figura intoccabile. Quindi voleva essere l’unica a parlarne male, unica col potere fantasmatico di mantenere il controllo dei suoi sentimenti più distruttivi.
Non mi dilungo sui dettagli, voglio solo spiegare come si arriva a comprendere una causa più profonda di quella che considera il meccanismo del “rivolgimento contro il sé”.
Qual era il vantaggio inconscio che la spingeva a diventare depressa, cioè vittima di se stessa?
Qual era il piacere biologico, istintivo, che involontariamente nascondeva alla propria coscienza?
Penso alla possibilità di restare nell’alveo della protezione: vittima sì, ma fino ad un certo punto.
Oltre questo confine si sentiva comunque protetta da quella figura che mai l’avrebbe abbandonata, nonostante la sua ingiustificata cattiveria.
La vittima depressa è molto tenace nella sua apparente passività, tanto tenace che per farla reagire, in senso terapeutico, sono spesso necessarie misure estreme.
Un’estrema pazienza?
Un attacco verbale estremamente pungente?
Un esercizio fisico portato al limite?
Ogni persona va studiata dall’inizio, dalla tendenza naturale e dall’ambiente che l’ha forgiata.
In ogni caso c’è un ingrediente che sta alla cura della depressione come la farina sta alla pizza: il legame affettivo.
In qualunque persona depressa, che io abbia ascoltato nella descrizione della propria mamma e della famiglia, mai ho sentito un profondo e vero desiderio di distacco.
Anche quando all’improvviso hanno lasciato il mio studio. Le ho viste tornare o cambiare semplicemente l’ambiente e il corpo dell’analista. Ma un cambiamento di questo tipo non è un distaacco, anzi, è spesso la paura del distacco.
Ho sentito parole di rancore, propositi terribili, dichiarazione d’amore, pensieri irriferibili, ma mai un sentimento di vero distacco.
Ho sempre sentito una richiesta d’affetto, comunque mascherata.
Non dico semplice empatia, dico quel tipo di sentimento che lega indissolubilmente un genitore al figlio/figlia.
Molto difficile da manifestare apertamente in seduta, soprattutto per le risposte aggressive che i veri genitori hanno inconsciamente provocato nel paziente.
La persona che si presenta a noi ci vede come prolungamento di quei genitori e ci tratta con lo stesso conflittuale tipo di legame.
Si, è la storia del transfert, una storia di estrema importanza nella psicoterapia psicoanalitica.
Una storia basilare rispetto a qualunque tecnica aggiuntiva, una storia che sta al centro della cura e che richiede un affetto diverso da persona a persona.
Una causa della depressione è la paura del distacco e la rabbia che accompgna le relative fantasie. Una cura è il transfert: un legame simbolico in cui la paura lascia il posto ad un nuovo tipo di fiducia.