Ho dato il nome “Mosaico Psicologie” all’associazione che ho fondato nel 1978 dopo aver ragionato su uno dei primi casi che ho affrontato con troppo successo appena dopo la laurea.
Come si può immaginare mi ero lasciato prendere dall’entusiasmo, ahimè tutto narcisistico, d’essere stato molto bravo, quasi magico, a risolvere in un paio di sedute un problema che mi era stato presentato come grave.
L’entusiasmo però è durato pochissimo, solo il tempo di fare alcune importanti considerazioni:
primo, dovevo mettere in rilievo che il problema era stato risolto dal mio paziente con il mio aiuto, non viceversa; lui era stato coraggioso ad un certo punto della sua vita, aveva deciso di cambiare un comportamento prima che diventasse cronico e aveva avuto bisogno soltanto dell’ultimo consenso: il mio, giusto perché ero passato io dalla sua strada;
secondo, non avendo affrontato le cause non potevo parlare di un cambiamento sostanziale del carattere acquisito, ma solo della rinuncia ad un sintomo, quindi da quel momento avrei dovuto aspettarmi che un nuovo sintomo, più insistente o più forte, potesse apparire come richiamo;
terzo, visto che ero solo all’inizio della mia professione era importante che approfittassi dell’esperienza per riconsiderare il mio modo di operare, ampliandone le possibilità.
Decisi di fare un passo indietro, come se non fosse successo niente di strano. Avevo capito che quel sintomo era stato risolto subito, non perché fosse molto lieve o perché io fossi stato un mago ma per il fatto più semplice che aveva un obiettivo/vantaggio inconscio diverso dal suo contenuto palese, che era stato soddisfatto tramite il mio brevissimo intervento.
In breve, il paziente si era presentato a me dicendo che era alla vigilia delle nozze ma che non poteva sposarsi perché aveva una forma d’impotenza secondaria. Questo disturbo, che si manifestava con la difficoltà e a volte l’impossibilità della penetrazione, l’aveva condizionato quasi sempre, anche se aveva avuto pochi rapporti nei suoi quarant’anni di vita. Si vergognava molto a parlarne con la fidanzata e per evitarlo si era inventato un sacco di trucchi, tra cui lunghissimi e ansiosi preliminari e auto-manipolazioni varie. Solo che adesso, a pochi giorni dal matrimonio, l’ansia era aumentata in modo esponenziale e il sintomo era ormai ingestibile.
Questa la motivazione apparente e logica per la coscienza.
Con le conoscenze di oggi, fatte di analisi personale, di formazione e di supervisioni, ci metterei un attimo a spiegarmi le cause, ma non potrei certamente metterci lo stesso tempo perché il paziente ne diventi cosciente fino al punto di favorirne le conseguenze evolutive. Le cause inconsce, più profonde e antiche, rivelavano una serie di censure che gli avevano sempre impedito di prendersi la donna con serenità, senza quella che Freud ha chiamato “angoscia di castrazione”, cioè paura ancestrale che l’uomo, suo rivale nel complesso edipico, attuasse la minaccia di punirlo con la castrazione.
Da me era venuto per attuare il suo breve e personale psicodramma, in cui il ruolo di suo padre mi veniva transferalmente attribuito e la sua angoscia poteva scomparire in forza dell’immaginario permesso ad agire la sua fantasia incestuosa.
La mia rassicurazione (che il transfert trasformava in quella di suo padre) era già da tempo desiderata e immaginata possibile da lui. Sulla scena di quello psicodramma, dunque, il paziente ha ufficialmente preso il permesso che voleva ed è passato all’atto di sposare la donna della sua vita.
Ecco perché ho capito che non si era trattato di un miracolo, ma dalla semplice sistemazione di un tassello della propria vita.
Con le scarse conoscenze acquisite in università, dove la psicoanalisi è incredibilmente quasi sconosciuta ancora oggi, avevo avuto il solo merito di porre più attenzione al paziente che a me stesso, di non fermarmi al primo successo e di capire e accettare il suo desiderio inconscio.
Subito dopo ho fatto qualcosa di essenziale, seppure decisamente naif in quel momento: mi sono mosso per conoscerlo meglio in tutto il suo percorso evolutivo.
Allora non lo sapevo, ma già Freud si era comportato così dopo aver risolto il sintomo isterico della paralisi alle gambe della sua prima paziente: non aveva ancora costruito la teoria psicoanalitica ma aveva intuito che due sarebbero stati i fattori più importanti della sua scoperta:
Il primo, quello di cercare sempre le cause nella “memoria dell’inconscio”, altrimenti i sintomi avrebbero potuto riapparire cambiando semplicemente la forma e l’intensità.
Il secondo, se le cause erano da ricercarsi nel periodo e nel tipo di relazione usato nella formazione del carattere voleva dire che lo strumento principale di correzione doveva avere le stesse caratteristiche di quello che aveva provocato la distorsione. Cioè se la distorsione era dovuta ad una mancanza affettiva nella relazione genitori-figlio/a lo strumento correttivo non poteva che essere di tipo affettivo-relazionale.
Da Freud in poi si chiamò transfert e rappresenta ancora oggi un punto determinante per la buona riuscita dell’analisi psicoanalitica.
Alla teoria di base di Freud mancava ancora qualche dettaglio (anche secondo me, oltre che secondo tanti altri, ma è chiaro che chi arriva dopo può permettersi il vantaggio di partire da dove si è fermato chi l’ha preceduto).
Comunque uno è l’importanza della tendenza relazionale naturale, di cui accennò in seguito Jung e che ho personalmente sviluppato fin dai primi anni.
Un altro è l’attenzione al corpo reale, non solo come sede dei sintomi causati da spostamenti libidici di nevrosi, ma anche come parte integrante delle pulsioni e dei blocchi che le trattengono e quindi massa di energia resistente capace d’influenzare a sua volta la psiche in un rapporto interattivo (cosa di cui si sono interessati prima Ferenczi, poi particolarmente Reich e Lowen e di cui mi ero appassionato già dal tempo dell’università).
Un altro è la possibilità di utilizzare setting diversi per esigenze terapeutiche differenti (vedi coppia o gruppi, particolare di cui ha cercato d’interessarsi Moreno e che mi ha “preso” quando già avevo esplorato le altre strade).
Da quel momento però ho deciso di costruire un quadro generale, preventivo, della vita di ogni paziente e di tenerlo in evidenza durante tutto il percorso psicoanalitico. Di partire dalla sua tendenza relazionale naturale, di proseguire con l’analisi dei comportamenti della famiglia che l’aveva formato; infine di accompagnarlo verso la soluzione dei conflitti della vita adulta,tramite il transfert e con l’utilizzo di tecniche psicoterapeutiche diverse, ma integrate alla psicoanalisi.
Messo in un contesto così più completo il sintomo si è rivelato un vero messaggio della psiche attraverso il corpo, con un significato più decifrabile dallo stesso paziente.
Seguendo questo percorso è nata l’idea del mosaico. (“Mosaico Psicologie”)
Un mosaico è formato da una figura indicativa di partenza e da tanti piccoli tasselli da sistemare: diciamo che può starci il paragone col carattere di base.
Poi c’è l’opera dell’uomo che sistema i tasselli e questo movimento è paragonabile alle tante azioni ed esperienze della vita del singolo, partendo dall’influenza della sua famiglia d’origine e proseguendo con l’inserimento in società.
Infine l’opera diventa completa se la figura iniziale è giusta, se i tasselli ci sono tutti e se “il giocatore” è sufficientemente bravo. Il che può corrispondere al tipo di equilibrio che una persona è riuscita a raggiungere con le altre figure che incontra nella vita.
Nel mosaico ogni singolo tassello è sempre indispensabile a formare l’immagine completa. Potrebbe essere strano, o brutto o insignificante, o molto bello, oppure assurdo, ma nel contesto può sempre essere determinante se ha la forma e il colore e il disegno che servono.
L’immagine completa è paragonabile all’equilibrio della persona e nell’analisi deve arrivare ad essere un riferimento costante, così come l’immagine iniziale del mosaico è il punto di riferimento costante per il giocatore.
Il soggetto a cui abbiamo accennato aveva smesso la sua psicoterapia lampo appena raggiunto il risultato sessuale desiderato. Dopo poco tempo però aveva ripreso ad avere problemi simili che faticava a controllare. Se avessi seguito una teoria comportamentista avrei pensato al riemergere dell’ansia da prestazione, figlia dell’esperienza negativa precedente e avrei proposto tecniche di rilassamento graduale e mirate. Ma non mi sono accontentato e ho voluto conoscere meglio l’intera situazione. Intanto ho scoperto che ai sintomi sessuali si erano aggiunti altri disturbi che lui ignorava perché li riteneva di second’ordine.
Per esempio aveva iniziato a soffrire di asma bronchiale e avevamo notato che la sentiva arrivare quando si avvicinava l’ora di andare a letto con la moglie.
Poi si svegliava abbastanza spesso con poca voglia d’iniziare la giornata, come può capitare in certe forme depressive.
Quando è tornato da me i nuovi sintomi erano all’inizio quindi abbiamo potuto ragionare sul motivo della loro formazione e notare come scomparivano in tempi abbastanza brevi per poi riapparire o venire sostituiti.
Nel frattempo il suo problema principale era diventato il propulsore della sua analisi, cioè il motivo che lo spingeva a superare i conflitti intrapsichici che veniva via via conoscendo.
L’immagine di se stesso diventava sempre meno frastagliata e sempre più chiara man mano che trovava il tassello giusto, insieme al coraggio di metterlo al suo vero posto.
Per esempio, ci mise un tempo lungo ad accettare che essere primogenito non gli dava il diritto di possesso esclusivo della madre in tutti gli anni della sua vita, che per conseguenza non gli consentiva di cullare fantasie, seppure inconsce, di eliminare la sorellina, né di aggredire fantasticamente il padre.
Da persona ben acculturata e intelligente aveva ammesso con una certa facilità che il punto di vista della psicoanalisi era corretto anche se complesso, ma da lì a vedere in se stesso anche il bambino che fa fantasie omicide e si sente poi in colpa come se le avesse attuate, beh, ci sarebbe passato tempo e fatica.
Devo dire che quel paziente è stato uno dei miei primi maestri perché mi ha puntigliosamente costretto ad essere preciso nelle ipotesi, fantasioso nel provocare associazioni, attento a restare fedele al “quadro generale” e corretto nelle interpretazioni. Ritengo che lo abbia fatto con una fiducia particolare, un transfert molto costruttivo anche se inizialmente difficile. Ma di questo vorrei parlare meglio nella prossima riflessione, che dedicherò appunto al transfert.