Nota preliminare: le frasi del paziente sono contraddistinte con la lettera” P”, messa all’inizio; quelle dello psicoanalista con la lettera “D” sempre messa all’inizio. Entrambe sono scritte in corsivo quando fanno parte del colloquio.
Le mie riflessioni sono contrassegnate così: °°°
P. La cosa che mi preoccupa di più, è un tipo di sospiro che mi arriva all’improvviso, in qualunque situazione io mi trovi, anche in compagnia. Gli altri se ne accorgono, lo so, credo che dopo un po’ mi giudichino male perché non riesco a controllarmi. Dura un attimo ma mi fa sentire come sospeso: potrei svenire da un momento all’altro ma non succede mai. E’ un attimo in cui non posso fare nient’altro che sperare di tornar normale, ma nemmeno a quello penso, non ho proprio alcuna attività in quell’istante. A volte mi dico che non è niente, in fondo si tratta di un tempo brevissimo, ma capisco che è un tentativo della mia mente per eludere un problema, anche se non so quale. Nella realtà mi fa star male, mi tormenta, mi fa sentire impotente, lo vivo come se fosse solo il terminale di un peso che non conosco, che non riesco a capire, ma di cui mi sento in qualche modo colpevole. Il mio medico mi ha dato degli psicofarmaci avvertendomi che non tutte le persone reagiscono bene. Io li ho presi e ho provato un primo stato di benessere, ma è durato solo qualche giorno.”
°°° La persona che parla ha un’intelligenza molto vivace, è intuitiva e precisa e ha utilizzato la sua laurea in modo creativo. Comprende bene le situazioni e sa trovare soluzioni corrette per i diversi problemi che incontra. Lo dico per sottolineare che ha capacità di pensare e agire nel migliore dei modi, quando è necessario, ma anche per mettere in evidenza il fatto che, nonostante queste capacità il suo inconscio riesce a spingerlo in altra direzione.
Infatti usa spesso la sua intelligenza per allenare in modo automatico un noto e maturo meccanismo di difesa: la razionalizzazione.
La razionalizzazione è l’utilizzo esagerato della razionalità, che produce pensieri senza sbocco. I pensieri tipici della razionalizzazione non raggiungono un obiettivo, non danno quindi il piacere della scarica, non lasciano col piacere di essere riusciti a concludere qualcosa, anche se solo in teoria. La razionalizzazione ha il solo scopo di spostare l’attenzione lontano da uno stato emotivo insopportabile e ingestibile, verso dove non importa.
Nel paziente in questione, questo meccanismo di difesa si è cronicizzato in una “resistenza” che si oppone in modo automatico alla scoperta del materiale latente. Immagini, fantasie, emozioni, che a suo tempo egli ha dovuto depositare nell’inconscio e che continuano ad essere in ogni modo attive sono ridotte in mille rivoli del pensiero più inutile e stressante.
In altre parole, gran parte della capacità intuitiva e logica è finita automaticamente al servizio delle sue censure. Invece che usarla per azioni naturali piacevoli l’ha tramutata inconsciamente in un baluardo costruito con i mattoni della paura, da tempo trasformata in ansia. L’ansia di scoprire le proprie emozioni più profonde e soprattutto il loro obiettivo originario.
Con questa persona mi sforzo di seguire l’attenzione che mette sul sintomo, anche quando capisco che sarebbe opportuno illuminarne le cause. Lo faccio per fargli capire che sto al suo fianco anche quando sarebbe più utile che fosse lui a seguire me. Sarebbe più utile che lui vedesse il suo malessere come il risultato di una serie di cause risalenti alla formazione della sua personalità, e oggi affrontabili con gli strumenti dell’adulto, aiutato dallo psicoanalista.
Ma le cause le vedo solo io, con gli occhi di chi non è coinvolto direttamente, mentre ha la conoscenza per vederle e l’esperienza per correggerle.
Lui è assolutamente fissato su quel sintomo, come se fosse lo schermo in un cinema buio. Per rendere meglio l’idea ricostruiamo una scena. Immaginiamo una persona intenta a guardare un film noir, presa emotivamente da ciò che viene proiettato e immaginiamo che alla sua trequarti un’altra persona stia per aggredirla. Fermiamo la scena così e chiediamoci se si accorgerà del pericolo reale in tempo per difendersi. E’ molto probabile che non se ne accorga. Se ne accorgerebbe quasi certamente se ci fosse la luce e fosse in un normale stato di veglia.
Il sintomo nasce per richiamare l’attenzione del soggetto su di un problema da risolvere, ma può diventare, come in questo caso, uno schermo che impedisce, anziché favorire, una visuale più completa.
E non è importante il tipo di sintomo ma la sua sola esistenza. Infatti, in precedenza era stato fissato su altri tipi di sintomi e presentava reazioni simili.
Chi utilizza queste resistenze non riesce a vedere, da solo, come la sua vita ne sia condizionata ingiustamente e senza che lui possa intervenire con la sua intelligenza. Anzi, come la sua intelligenza gli sia nemica, nel caso della razionalizzazione.
Non riesce a comprendere che l’intelligenza diventa succube della paura delle emozioni quando queste sono ritenute troppo forti.
Come si può notare dalla prosecuzione del colloquio, perde anche la capacità di ascoltare le mie parole, se vanno in una direzione a lui non gradita (vedere miei precedenti articoli con argomento “sintomo”).
P i pensieri riesco a dominarli abbastanza, adesso, dopo che lei mi ha ripetutamente spiegato da che cosa dipendono e che cosa fare quando mi vengono, ma mi resta quel sospiro così pesante”.
D ritengo che un attimo prima del sospirone ci sia una piccola apnea, un momento di morte infinitesimale, a cui lei reagisce immediatamente in modo automatico e inconscio. Penso che si tratti di un’alleanza con il momento della morte di sua madre. Come se lei, da quando si è ammalata gravemente sua mamma. avesse avuto la fantasia di seguirla fino alla fine, ma nel momento in cui quella esalava l’ultimo respiro, abbia avuto come reazione un respiro istintivo e immediato: un’azione di conservazione, necessaria per continuare a vivere
P. Io faccio fatica a pensare alla mancanza vera di mia mamma. Lei e io siamo una cosa sola.
°°° da notare che usa il tempo presente, nonostante la madre sia morta da qualche anno.
P. Forse mi è troppo doloroso pensarlo e infatti non mi viene mai in mente in proposito.
°°° da notare che evita la parola “morte”.
P. Penso di più alla proibizione. Per esempio, se dico una parolaccia, cioè una che sarebbe giudicata sconveniente dalla religione, e so che mia mamma ci teneva moltissimo, ma proprio molto molto che io facessi solo ciò che la religione permetteva, allora penso a cosa mi potrebbe succedere, secondo la religione che mi ha insegnato mia mamma.
D quindi lei accetta la descrizione di come si forma il sintomo ma propone una causa differente, diciamo più recente e meno tragica. A me pare già importante che lei mi proponga di ragionare sulle cause.
°°° Lo dico per appoggiarlo nella sua ricerca, anche se credo che questa sua deviazione, sulla ricerca di una causa alternativa a quella proposta da me, sia una resistenza che gli permette di non parlare direttamente dell’episodio, ancora troppo doloroso, che è stato la morte della madre. D’altronde anche la strada proposta da lui può portare ad una presa di coscienza molto utile, soprattutto sul fronte dei sensi di colpa e delle sue conseguenze autodistruttive. Continuo quindi ad ascoltarlo.
P. Molto spesso penso a quello che direbbe o farebbe mia mamma se sapesse che non vado più a messa, che vedo film sconci, che dico la parolaccia, che andrei anche a prostitute. Penso che ci starebbe molto male. Non ho mai osato confessarle queste cose
D. molto male?
P. si, da morire
°°° piange senza emettere un suono, lasciandomi ascoltare solo una specie di singhiozzo strozzato.
C’è una palese contraddizione tra l’amore che dice di provare per la madre e la fantasia di dire o fare ciò che la farebbe morire di dolore.
Ma ecco che siamo arrivati, seguendo la sua strada, al tema che avevo proposto prima: quello dell’alleanza tra lui e sua madre protratta fino al momento della morte.
Mi porta una serie di episodi in cui la madre gli ripeteva che se avesse fatto o detto cose che davano dolore alla Madonna e a Gesù lei ne sarebbe morta di dolore. Usa ripetutamente questa espressione e pian piano prende coscienza del legame indissolubile tra le sue azioni e il dolore tremendo che avrebbe procurato alla madre.
Ne seguono riflessioni sul suo senso di colpa e su come spesso avesse cercato di allontanarlo facendo una vita “spensierata”.
P. da ragazzo e da grande ho sempre cercato di non pensare alla morale di mia mamma, anzi mi ci sono proprio ribellato, ho agito contro sperando di non averci più a che fare.
D già, solo che la morale di sua madre è sua madre stessa. Lei l’ha interiorizzata senza saperlo e volerlo. Quando ci si mette contro senza elaborarlo crea semplicemente un rinforzo per il legame originario. La morale di sua mamma è il legame più importante che ha con lei. Per liberarsene deve prima separarla da lei. Vedere altri aspetti suoi, anzi di ognuno di voi due. Caratteristiche naturali che vi distinguono.
P ma io e mia madre eravamo uguali.
D beh, per esempio lei è un maschio e sua madre una femmina, non è una differenza da poco, non è strano che non l’abbia notata? Sua madre ha sicuramente avuto una tendenza naturale, una parte istintiva. Deve riuscire ad apprezzare quella come altra cosa rispetto all’insieme delle norme che formano la morale.
Se sua madre l’ha tenuta così strettamente legata a sé lei deve fare un lavoro di paziente cesura che la renda più indipendente..
P. e il mio sintomo?
D vede, l’argomento sintomo torna appena si accenna all’indipendenza da sua mamma. Il sintomo dell’apnea è davvero l’ultimo tentativo di morire e la prima reazione della vita
°°°L’abbassamento drastico del senso di colpa è determinante in questi casi. Purtroppo non avviene in tempi molto brevi perché la persona deve prima portare alla coscienza gli aspetti proibiti di una certa relazione, sia quelli che riguardano il rapporto col genitore amato, sia quelli che si riferiscono al genitore inizialmente contrastante (si potrebbe dire “odiato” perché i bimbi piccoli non hanno ancora limitazioni morali ai sentimenti, ma si fa un po’ fatica ad accettare questa realtà: che degli esserini ingenui e teneri possano già odiare).
La complicazione maggiore sta nel fatto che i sensi di colpa sono la prova di un legame molto forte, anche se negativo. Un legame che può essere tanto forte da procurare un dolore psichico a volte sconvolgente e duraturo, e spesso anche pericoloso nella sua capacità autodistruttiva.
Quante emozioni si celano in un legame troppo forte! Le persone adulte non si accorgono di crearlo, ci cascano come si casca nel piacere di soddisfare un bisogno primario, con la stessa facilità con cui un bimbo farebbe indigestione di gelato. Il legame troppo forte, derivato della paura del piccolo di non riavere la mamma, non passa con gli anni, anzi, si cronicizza, diventa un groviglio duro e resistente dentro cui marciscono i sentimenti migliori e sporgono i peggiori. Ed ecco allora i sensi di colpa per le fantasie incestuose o aggressive, ecco la gelosia da possesso, ecco il rancore, ecco gli stati paranoidi, ecco i sintomi psicosomatici, ecco la depressione sempre in agguato.
Il legame d’amore non ha bisogno di tutto questo: vive nel momento, nel luogo e nel modo che l’istinto propone, accettando il rischio della fine come proposta per un nuovo inizio.