Ti amo perché ti odio

In premessa ricordo che questa espressione è il frutto di una condizione psico patologica radicata. Non di uno stato affettivo equilibrato.

Possiamo rifletterci partendo dall’influenza del gruppo sociale sull’individuo: l’influenza determinante della famiglia, della scuola, dei gruppi di amici, eccetera.
Del resto, anche nella modalità psicoanalitica è consigliabile favorire prima l’esposizione di elementi più recenti, eppure determinanti l’umore del momento, prima di tornare a quelli più lontani nel tempo e più emotivamente carichi.

Mentre in senso ontogenetico il percorso si forma al contrario: dall’individuo alla famiglia e da questa all’ambito sociale.

L’odio sociale è come un’esondazione.
Si forma pian piano, per diversi motivi che vengono normalmente trascurati, o meglio rimossi.

Una persona “dimentica” di pulire la riva del torrente che passa dai suoi campi;
un’altra scarica un po’ di rifiuti della sua piccola azienda e minimizza il suo gesto;
poi c’è uno che s’intasca i soldi che lo stato gli dà per mantenere i lavori di bonifica;
un altro costruisce una casetta sul letto del fiume, e si giustifica che non può permettersi un terreno più costoso.

Per non parlare di chi avvelena molto e inquina in grande quantità, deliberatamente, per eccessivo attaccamento ai soldi.
Ma insomma, un altro più un altro e un altro ancora: è così che il poco diventa troppo.

E forse parlo anche di noi che ne stiamo parlando, che inquiniamo l’aria “senza volere” e dimentichiamo di consumare solo l’indispensabile.
Ognuno tende a proiettare su tutto il resto del mondo le responsabilità che invece sono proprie.
Poi, a un certo punto, all’improvviso, basta una pioggia molto più abbondante del solito e arriva il disastro.
Ma ancora a quel punto si gioca a scaricabarile, come si dice in gergo.
Oppure, in termini più psicoanalitici, ci si affretta a proiettare sugli altri i sentimenti più angoscianti imprigionati nell’inconscio.
Una gara che vede tutti uniti nel cercare un colpevole comune: dalla stampa ai politici, ai cittadini.
Parte in automatico la ricerca inconscia di un colpevole che procuri una duratura assoluzione personale.
Un’assoluzione illusoria, nel migliore dei casi, un’assoluzione falsa, o addirittura psicotica, in altri casi.
Un’assoluzione di sé che implica la scarica dell’odio sugli altri. Un odio che si espande e s’ingigantisce senza un motivo ragionevole, come un virus di cui ormai pochi hanno il vero antidoto.

L’odio sociale parte da uno, più uno, più uno e si scarica in un conflitto armato, intra o inter nazioni.

Ma c’è una domanda ulteriore che chiede una spiegazione:

“perché alla fine di ogni guerra i vinti si mescolano ai vincitori e spesso ne assumano le usanze, a volte la lingua, e persino la religione?”
E’ come se ammirassero la forza che li ha sconfitti e sottomessi.
E’ l’atteggiamento che Freud ha chiamato masochismo.
Vero che interviene una sorta di rassegnazione da parte dei vinti, ma anche il desiderio di tornare al sentimento dell’amore, alla fratellanza, ha il suo peso nella nuova comunità sociale.
In  questo caso, i sentimenti più positivi nascono da esperienze che sono negative fino alla scarica nella tragedia: sono una reazione contraria alla causa, una reazione che può esistere in quanto parte integrante della causa.

E torniamo finalmente all’espressione “ti amo perché ti odio”, che ha caratterizzato il Convegno 2018 dell’Istituto Mosaico Psicologie.

Per spiegarla in senso cognitivo ci metteremo poco.

Infatti, il processo cognitivo che permette alla nostra mente di renderci conto dell’argomento, è semplice: amore e odio sono due sentimenti che nello stesso individuo sono uniti e contrapposti.

Se non esistesse l’amore non esisterebbe la sua fine,  la sua morte, cioè l’odio.

Varia solo la quantità dell’uno e dell’altro nei vari momenti della vita.

E questa variazione stabilisce il tipo di equilibrio presente in una persona, in una coppia, in un gruppo.
Dal punto di vista anatomico, amore e odio, hanno la stessa origine,  l’amigdala, ma percorrono due strade diverse.
Tra le varie caratteristiche che ha l’amigdala, vero gestore della maggior parte delle emozioni, oggi ne sottolineo due, che rispecchiano le ultime ricerche.
La prima è che produrrebbe soprattutto emozioni negative, tipo la paura e quella che dovrebbe essere un suo derivato: l’aggressività.
La seconda è che nel maschio ha proporzioni mediamente più grandi rispetto a quelle della femmina.
Cosa se ne può dedurre?

Intanto che il maschio sarebbe più spaventato e più aggressivo della femmina.

Sembra una contraddizione ma non la è se si pensa che l’aggressività copre la paura.

Se riporto questa deduzione nello studio dello psicoanalista, vedo due dettagli:
°°primo, che i commenti ubbidiscono quasi totalmente al meccanismo di proiezione;
°°°secondo, che la maggior parte dei commenti delle femmine sui maschi riguarda la loro componente di eccessiva aggressività, non quella di eccessiva paura.

Ma se invece di fermarmi ai commenti, analizzo il comportamento delle femmine con i maschi, esperienza analitica e statistica mi dicono che le femmine vivono maggiormente l’aspetto della paura maschile, della sua componente più insicura e infantile.
Le femmine criticano, spesso con disprezzo, l’infantilismo dei maschi, la loro sottomissione alla mamma, la loro indecisione.
Ricordo che stiamo parlando di rapporti “tesi”.
Ugualmente se osservo il comportamento dei maschi verso le femmine noto che l’aspetto maggiormente descritto è quello della provocazione aggressiva femminile.
Il maschio si sente spesso provocato fino al limite della sopportazione e reagisce o aggredendo, o più facilmente fuggendo per non aggredire.


Lascia un commento