Prima d’iniziare questa riflessione sui silenzi troppo rumorosi della coppia, ricordo in breve la teoria psicologica a cui ritengo di aver dato un buon contributo di ricerca in questi ultimi quarant’anni: quella della distorsione della tendenza relazionale nella personalità compiuta.
In altre parole, il fatto che una persona possa nascere tendenzialmente estroversa, per esempio, in una famiglia di persone introverse e debba modificare la sua tendenza per riuscire a vivere in quell’ambiente. Col risultato di diventare forzatamente introverso.
E viceversa, che un introverso capitato in una famiglia di estroversi debba distorcere la sua tendenza naturale per adeguarsi alla modalità prevalente in quel gruppo, divenendo un apparente o forzato estroverso.
In italiano possiamo utilizzare i termini introvertito ed estrovertito per designare le due distorsioni.
In alcune lingue una simile differenza di termini non c’è e questo, insieme alla carenza di studi al riguardo, ha portato ad una certa confusione teorica.
Lo chiarisco in alcuni altri miei lavori, per spiegare due delle scelte che faccio a favore del paziente:
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una scelta riguarda la modalità psicoterapeutica che mi sarà possibile usare (consulenza, psicoterapia breve, bioenergetica, psicoterapia psicoanalitica, psicoanalisi);
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l’altra scelta si riferisce alla possibilità di usare il setting migliore per una determinata situazione (individuale, di coppia o di gruppo).
Ma vediamo un esempio, di cui fermo una sola immagine per obbligo di spazio.
La persona di cui desidero parlare mi ha chiamato più di una volta per descrivermi la sua difficile situazione e riuscire a convincere il partner a condividere l’esperienza di psicoanalisi di coppia.
Perciò sono rimasto colpito nel vederli entrare in studio per mano, con l’aria soddisfatta e dignitosa, tipica di chi percorre il corridoio che porta all’altare del matrimonio.
Però, appena superata la soglia il loro atteggiamento è cambiato: mi hanno salutato, presentandosi in modo asciutto, e ognuno è andato subito a mettersi in una posizione lontana dall’altro. Così sistemati, non riuscivano nemmeno a guardarsi negli occhi senza un certo sforzo.
Potrei dire che si guardavano solo attraverso me. Avevano formato un triangolo di posizione, in cui loro rappresentavano i due angoli dell’immaginaria ipotenusa e io l’angolo retto. Ma tra loro mancava il lato di collegamento: l’ipotenusa appunto.
I loro sguardi erano su di me oppure nel vuoto. Le parole di uno non erano indirizzate direttamente all’altro, ma dovevano passare attraverso l’intermediario, che nelle loro intenzioni avrei dovuto essere io, lo psicoanalista di coppia.
Simbolicamente, il rappresentante delle loro famiglie d’origine.
In seguito mi hanno detto che questo era il loro normale modo di conversare: quasi esclusivamente alla presenza di un altro.
La presenza poteva essere fisica ma a volte anche solo immaginaria, o portata tra loro con facili proiezioni.
Per esempio, se uno dei due doveva dire all’altro che era stato sgarbato criticava il comportamento sgarbato di una persona esterna e insisteva fino ad avere il consenso del partner.
“Noi non abbiamo mai litigato in quindici anni” ha sentenziato lui con voce pacata, dopo tre lunghi minuti di silenzio, “per questo non capisco che cosa ci facciamo qui, salvo il fatto che l’ha voluto la signora”.
La signora si era intanto raggomitolata, deglutendo non so quale commento, e di nuovo era caduto il silenzio. Sembrava non si conoscessero, erano apparentemente tranquilli, ognuno nel proprio mondo, forse alle prese con dei propri interlocutori interni.
Esternamente pareva nebbia relazionale, di quella nebbia che si taglia col coltello tanto è spessa, come dicono nella bassa padana.
La postura però, e la mimica, denunciavano ben altro. Un po’ troppo ingobbita lei, con la testa che sembrava volersi nascondere nel busto, gli occhi semichiusi, le dita strette a pugno, come di chi prepara un attacco immaginario.
Più aperto lui, ma tipo spavaldo, le spalle troppo alte per permettersi di stare rilassato, si era voltato in modo che io potessi vederlo solo di profilo, non negli occhi. Con una postura da falso leader, cercava inutilmente di nascondermi una gobba non molto diversa da quella della moglie.
Il silenzio è durato molti minuti ed è stato rotto dal singhiozzo trattenuto di lei. Non una parola però, solo il respiro a stantuffo e il rumore del fazzolettino estratto dalla sua custodia di plastica.
“E’ sempre così il signore” ha mormorato ad un certo punto lei, con tono accusatorio, prima di tornare nel silenzio.
E di nuovo muta, e lui anche, come fossero parti della stessa orchestra.
A me, che pure sono abituato ai silenzi, è parso di sentire la pesantezza di quel vuoto di parole, la tipica pesantezza che nasce da troppe censure, da troppa paura, da troppo rancore.
Percepivo il divieto di portare tra noi, in quel momento, un sentimento, un’emozione, anche la più piccola e più positiva.
E’ stato come un rimbombo nelle orecchie, come quello che si sente in una grossa conchiglia, capace di coprire ogni altro suono di vita.
Così siamo rimasti, così, gli sguardi divergenti, come in una specie di cassaforte, fino alla frase successiva, breve e tagliente.
“Non ti si smuove neanche con una cannonata”.
Ha parlato lei e mi ha guardato un attimo, in cerca di approvazione. Un attimo veloce prima di tornare in posizione d’attesa, come un soldato in trincea.
Lui pareva in un altro mondo: nessun segno di vita, salvo aggiustare ogni tanto la posizione della schiena, come se in fondo faticasse un po’ troppo a mantenerla su e accettasse di comunicarlo.
La seduta è finita lì, senza altre novità.
Rifletto: se due persone simili fossero semplicemente introverse, se cioè questa fosse la loro caratteristica naturale, starebbero bene nei loro silenzi, e comunicherebbero benessere, come ogni persona che può vivere secondo la propria natura.
Ma se la loro relazione produce la tensione di guerra a cui ho assistito, allora una prima diagnosi, diventa scontata. Se poi questo è il loro rapporto quotidiano da quindici anni, ripeto quindici, ci troviamo davanti ad un cronico problema di distorsione della personalità. In altre parole, nessuno dei due è se stesso in quella relazione.
Come ormai ben sappiamo, i due partner di una coppia portano nella nuova “famiglia” gli schemi relazionali delle rispettive famiglie d’origine. Così come vi portano la cultura e altri dettagli che formano le rispettive personalità acquisite. Fin dal primo incontro, ognuno dei due cercherà di far prevalere lo schema che meglio conosce e nel migliore dei casi inizierà a cercare un equilibrio.
Ma gli schemi relazionali non sono fatti da reti cognitive e basta, non appartengono solo al mondo della consapevolezza, al contrario sono figli soprattutto della lotta tra pulsioni e censure. Sono conflitti che si annidano e si sommano nell’inconscio fin dai primi momenti della formazione della personalità. Spesso faticano ad emergere, spesso trovano le strade e le modalità più diverse e originali, pur di riproporsi.
Una persona che abbia dovuto adeguarsi alla famiglia, distorcendo in modo marcato la propria tendenza relazionale naturale, spera in coscienza di trovare nel partner la persona in grado di aiutarla a ritrovarsi. Ma nello stesso tempo, anzi un po’ prima, l’inconscio punta a riavere l’ambiente conosciuto, cioè, esattamente quello che le ha creato i maggiori conflitti e procurato i dolori più pungenti.
Quindi, ogni persona trova inconsciamente l’altra che sia capace di aiutarla a risolvere i problemi fermi nell’inconscio.
E’ così che si formano gli incroci spesso incomprensibili alle menti umane: com’è possibile che tizio si sia messo con “quella là” o che una donna così intelligente abbia scelto un uomo così bamboccio?
Serve imparare a chiederlo all’inconscio. Serve prender la necessaria confidenza con le componenti emotive rimaste imprigionate nell’inconscio.
Perché certi silenzi, nella coppia, sono molto rumorosi e distruttivi. A volte anche più di una litigata.