La domanda che corre sulle labbra o nella mente dei neo-laureati in psicologia è questa. Incredibilmente è chiedersi se vale specializzarsi in psicoterapia oggi.
Una persona adulta di buon senso, anche non psicologa, non se la porrebbe di certo. Voglio dire, una persona che fosse psicologicamente adulta capirebbe che tra una semplice laurea, con la fastidiosa aggiunta dell’esame di stato, e l’allenamento, con supervisione, alla pratica professionale, c’è una bella differenza.
Ecco la specializzazione in psicoterapia. E’ un percorso che aggiunge alla conoscenza teorica, e necessariamente parziale dell’università, il sapere dell’esperienza e l’allenamento a mettere in pratica le conoscenze.
Oggi ne parlo in questo spazio, anziché sul sito della scuola per psicoterapeuti, perché desidero che ogni persona, cosciente della validità della psicoterapia, sappia della situazione e possa scegliere il suo psicoterapeuta, psicoanalista, con cognizione di causa.
La mia domanda attuale è rivolta a quei giovani laureati che decidono d’iniziare a fare clinica senza la specializzazione in psicoterapia, e senza fare un percorso d’analisi personale.
Due carenze quasi determinanti, secondo me.
Al di là di quello che permette il regolamento dell’Ordine degli Psicologi, di cui altre volte ho mostrato i troppi limiti , devo chiedere ai neo laureati come pensano di affrontare problemi che riguardano altre vite se non hanno ancora affronato bene i loro..
So che questa domanda se la pongono quasi tutti ma temo che lo facciano a livello inconscio perché la conseguenza cosciente pare troppo spesso ignota.
Il risultato è che molti si rifugiano nella clinica dell’infanzia pensando che essere più grandi dei pazienti, sia d’aiuto.
E’ vero solo in piccola parte, primo perché la componente infantile che per mille motivi resta irrisolta in ogni personalità, incide sulla necessaria serenità dello psicologo, secondo perché ogni bimbo e ogni bimba hanno dei genitori. E questi entrano sicuramente nella dinamica “terapeutica”, complicandola notevolmente.
Appena usciti dal calderone universitario che cosa pensano onestamente di poter fare i giovani psicologi davanti a vite tribolate, difficili, passate nella confusione tipica delle nevrosi e nello stress quotidiano. Come pensano di separare le loro emozioni da quelle dei loro pazienti, senza aver preso coscienza delle collusioni tra loro, delle associazioni tra le proprie fantasie/esperienze rimosse e quelle di chi sta chiedendo loro aiuto.
E’ un tema complesso ma essenziale.
Pensano che bastino gli esami teorici, e quel po’ di tirocinio fatto per l’esame di stato, per rassicurare i pazienti sulle loro competenze?
O forse hanno la fantasia di poter applicare sempre un protocollo cognitivo comportamentale senza preoccuparsi della relazione affettiva, positiva e negativa, che possono innescare in modo inconscio. O magari s’illudono che dopo qualche d’esperienza (fatta sulla pelle di chi?) ci si possa dire specializzati, senza ulteriori verifiche.
Vedo ogni settimana come gli psicologi specializzandi arrivano alla mia scuola e come se ne vanno, dopo 4 anni di dimostrazioni, di discussioni, di osservazioni, di pratica simulata.
Vedo bene la differenza.
E la vedono bene anche loro, i nuovi allievi, quando lavorano insieme ai più avanzati. Dalle prime esperienze si accorgono subito di quanta strada devono percorrere per raggiungerli.
E quelli più vicini al diploma guardano ai nuovi come a dei bimbi, professionalmente parlando, quasi stupiti che anche loro potessero essere così, solo quattro anni prima.
Ecco, oggi volevo dire solo questo, che sembra poco ma vorrei che avesse il giusto valore. E scusate se mi sono rivolto al pubblico perché capiscano anche gli psicologi. In fondo siamo tutti sulla stessa barca, pur se con compiti diversi.