L’inconscio tecnologico

PREMESSA

Ho dato questo nome, inconscio tecnologico, al possibile risultato attuale e futuro del complesso sistema di reti neurali artificiali (ANN: artificial neuronic network) E’ comprensibile che qualcuno tra gli psicologi presenti si sia spaventato alla prima lettura di questa relazione, forse io stesso ho trasmesso un certo timore alla platea mentre cercavo di descrivere le prevedibili conseguenze per gli esseri umani del progresso di ANN.
Ma partiamo dal principio e andiamo gradualmente, in cinque diverse tappe, verso il punto focale.
Google, smartphone, apple, facebook, app, twitter, android, internet, microsoft, instagram, eccetera, sono le applicazioni più semplici e più conosciute di reti neurali artificiali, più o meno quelle che ormai quasi tutti usiamo ogni giorno.
Ognuna di queste è stata progettata ad imitazione del funzionamento del cervello umano, e finché c’è stata la parola “imitazione” forse tutti si sono sentiti tranquilli.
Gli esseri umani si sono difesi, con due ben noti meccanismi inconsci, dalla possibile angoscia di dover perdere il controllo delle loro creature tecnologiche, anche solo per brevi periodi.
Il primo è stato una forma di onnipotenza, il pensiero, o meglio la fantasia, di essere eternamente superiori. Un po’ come recita la bibbia: fatti ad immagine e somiglianza di Dio. E’ la presunzione che porta a pensare l’intero universo come qualcosa di asservito all’essere umano.

Il secondo meccanismo di difesa è stato quello di negare la conoscenza della realtà: si utilizzano le applicazioni senza chiedersi come funzionano e dove ci potrebbero portare.
Con questi tipi di difese, passati al ruolo di resistenze nocive, e utilizzati in molti altri settori, ci stiamo perdendo pian piano anche il bello del nostro pianeta e della nostra salute.
Perciò noi non vogliamo usarli, vogliamo invece approfondire la conoscenza anche di quella tecnologia che non si può dire di nostra stretta competenza. Gliela facciamo diventare perché incide sulla salute fisica e psichica delle persone di cui ci occupiamo ogni giorno. Oltre che sulla nostra.

Dunque, come premessa ricordo che all’interno del cervello umano (così come in molti altri animali) la risoluzione dei problemi è affidata a reti (o circuiti) neurali, composte solitamente da svariate migliaia di cellule.
Queste reti, la cui estensione e grandezza varia a seconda del compito richiesto, possono coinvolgere anche diverse aree cerebrali e il loro sviluppo, e formazione, è stato fondamentale nel processo di evoluzione della specie umana.
Se vogliamo pensare ad un modello molto più semplice di interconnessione, ovvero di rete neurale biologica, guardiamo alle diramazioni di un albero.

Nell’albero, le informazioni vitali vanno da ogni radice al tronco e da questo ad ognuno degli altri componenti: rami, foglie, fiori.
Con un’azione che prende aria e nutrimento dall’es-terno e dall’interno e lo distribuisce ad ogni altro componente. 

PRIMA TAPPA

Cosa sono le reti neurali artificiali.
Quando si parla di reti neurali artificiali ci si riferisce a sistemi di elaborazione dell’informazione il cui scopo, come detto prima, è di simulare il funzionamento delle reti biologiche all’interno di un sistema informatico. Lo scopo finale di una rete così articolata è quello di acquisire informazioni dal mondo esterno, elaborarle e restituire un risultato sotto forma d’impulso.

Le reti neurali artificiali sono quindi spesso utilizzate nel campo della programmazione delle intelligenze artificiali per affrontare e tentare di risolvere determinate categorie di problemi.
A questo primo livello e nonostante la loro utilità, non si può dire che queste reti siano davvero intelligenti: anzi, l’unico elemento di intelligenza nell’intero processo è quello inserito dal programmatore che, dopo aver analizzato il problema da risolvere, ha creato un programma o un’applicazione dedicata a questo compito.
Ma nel progetto di avanzamento, già presente, le reti neurali artificiali possono essere considerate come un’ampia rete informatica che potrebbe essere composta, per rendere l’idea, da diverse decine di computer che svolgono lo stesso ruolo che i neuroni svolgono all’interno delle reti biologiche.
Ognuno di questi nodi (neuroni artificiali) è collegato agli altri nodi della rete attraverso una fitta rete di interconnessioni, le quali permettono anche all’intera rete di comunicare con il mondo esterno.
Lo sviluppo in atto consiste nel moltiplicare il numero di neuroni artificiali in modo da permettere operazioni sempre più complesse. 

Come funziona in dettaglio una rete neurale artificiale (ANN: artificial neuronic network)

I nodi che compongono una rete neurale artificiale sono suddivisi in tre macro-categorie.

  • i nodi appartenenti alla categoria unità di ingresso (Input);
  • i nodi appartenenti alla categoria unità di uscita (Output);
  • infine i nodi delle unità nascoste (Hidden).

Ognuna di queste unità svolge un compito molto semplice: attivarsi nel caso in cui la quantità totale di segnale che riceve (sia da un’altra unità sia dal mondo esterno) supera una certa soglia di attivazione.
Quando una di queste categorie supera la soglia di attivazione ammessa emette a sua volta un segnale attraverso dei canali di comunicazione fino a raggiungere le altre unità cui è connessa.

SECONDA TAPPA

La funzione di trasferimento del segnale nella rete non è programmata ma è ottenuta attraverso un processo di apprendimento basato su dati empirici.
Questo processo può essere:

  • supervisionato,
  • non supervisionato,
  • ottenuto per rinforzo.

Nel primo caso, del processo di apprendimento supervisionato, la rete utilizza un insieme di dati di addestramento grazie ai quali riesce a inferire i legami che uniscono questi dati e a sviluppare un modello “generale”.
Questo modello verrà successivamente utilizzato per risolvere problemi dello stesso tipo.

Un esempio ci viene dal meteo. Il programmatore inserisce dei dati e chiede un risultato della loro elaborazione. Per esempio, stabilisce che se la temperatura è maggiore o uguale a 22 gradi e la pressione uguale o maggiore di 1021 hPa allora sarà bel tempo.
Nel secondo caso, del processo di apprendimento non supervisionato, il sistema fa riferimento ad algoritmi che tentano di raggruppare i dati d’ingresso per tipologia, cioè individua cluster (gruppi) rappresentativi dei dati stessi, facendo uso di metodi di tipo topologico o probabilistico.
Un esempio è il riconoscimento delle foto. Si forniscono molti dati (input) e non si danno indicazioni di output. La rete è in grado, come vedremo più avanti, di procedere autonomamente a riordinarli e permette il paragone.
Nel terzo caso, del processo per rinforzo, un algoritmo si prefigge di individuare un modus operandi a partire da un processo di osservazione dell’ambiente esterno. In questo processo è l’ambiente stesso a guidare l’algoritmo nel processo di apprendimento.
Quindi ogni azione ha un impatto sull’ambiente che risponde modificando il processo di apprendimento dell’algoritmo.
Per un tale compito serve un “agente” capace di percepire le azioni possibili in quel dato ambiente.

Un esempio può essere quello del robot che pulisce la casa e che fa una mappatura dell’ambiente in base all’esperienza precedente.

TERZA TAPPA

I neuroni a cambiamento di fase di IBM.
I ricercatori di IBM potrebbero essere i primi ad aver creato dei neuroni artificiali capaci di imitare il funzionamento di quelli “biologici”.
Per realizzare i “replicanti” dei neuroni sono stati utilizzati materiali in grado di realizzare superfici caratterizzate da due strati stabili:

  • uno amorfo (senza una chiara strutturazione interna);
  • e uno cristallino (all’interno dei quali, dunque, il reticolo delle molecole è ben definito).

Le memorie RAM a cambiamento di fase (PRAM) cambiano a seconda del caldo e del freddo.
Col caldo si sciolgono e permettono una più elevata capacità di scrittura.
Col freddo s’irrigidiscono e diventano preziosi serbatoi di stoccaggio delle informazioni. La loro particolare conformazione chimico-fisica, se stimolata elettricamente, mostra due comportamenti molto peculiari.
Il primo è la cristallizzazione progressiva della struttura.
Il secondo, ancora più importante, si riferisce alla rete di neuroni artificiali che mostra potenziali di azione.
Cioè, i neuroni «a cambiamento di fase» sono in grado di “reagire” autonomamente agli stimoli che arrivano dall’esterno del loro sistema.
Visti i risultati preliminari, gli esperti asseriscono che si possa ragionevolmente pensare ad una realizzazione di reti neurali di più ampio “respiro”, cioè autonome per diverse funzioni, utilizzabili entro pochi anni.

Quali applicazioni per le reti neurali artificiali.
Una rete artificiale può essere determinante per risolvere quattro categorie di problemi:

– per la classificazione di dati in vari gruppi;

– per riconoscere regolarità, modelli e schemi tra altri dati;

– per effettuare predizioni su dati di input in suo possesso;

– per ottimizzare un risultato già ottenuto con altri mezzi.

Nota importante. Per sua natura, una rete neurale artificiale funziona come una black box: può fornire risultati anche molto precisi a partire da una serie di dati di ingresso molto vari ma non sa spiegare perché e come ha ottenuto quel risultato.
Per esempio una rete neurale artificiale può servire per riconoscere volti o altre parti del corpo all’interno di una grande database fotografico: un compito arduo e lungo da svolgere per un solo computer, ma che può essere svolto appunto da una rete neurale artificiale in un tempo relativamente breve. Ovviamente, la bontà e la precisione dei dati ottenuti in tali casi sono strettamente legate alla quantità e alla qualità dei dati di input che verranno forniti al sistema informativo.
Una rete neurale artificiale può imparare a riconoscere il contenuto di una foto con una precisione che attualmente è stimata al 98%, cioè ha il 2% di margine d’errore, mentre un essere umano può svolgere lo stesso compito con una precisione al 75%, quindi con un margine d’errore del 25% !!!
Basta fornire alla ANN migliaia di immagini da analizzare, da cui estrarre gli elementi astratti che caratterizzano una determinata classe di oggetti. Un processo simile a quello che utilizza il nostro cervello nel corso dell’esperienza, solo che il risultato è quasi perfetto mentre il nostro cervello ha la media di un errore su quattro tentativi.

QUARTA TAPPA

Ma come vede realmente il mondo un dispositivo di questo tipo?
Se lo sono chiesti i ricercatori di Google, e per verificarlo hanno chiesto alla loro rete neurale artificiale non di riconoscere, ma di produrre immagini di oggetti.
Il risultato sono una serie di rappresentazioni oniriche e psichedeliche che, suggeriscono di poter essere considerate qualcosa di simile ai sogni di un computer.
Ecco che cosa succede in dettaglio.

Una rete neurale tipo quella di Google è composta da migliaia di connessioni neurali organizzate in livelli ascendenti, che analizzano elementi sempre più astratti di un immagine. Quando al programma viene sottoposta una foto, i livelli più bassi della rete neurale analizzano elementi come angoli e contrasti tra pixel. Poi si sale a livelli in cui il programma estrae informazioni sempre più complesse, fino ad arrivare, dopo essersi allenato, all’ultimo livello, dove viene prodotto l’output, che in questo caso è il riconoscimento dell’oggetto contenuto nella foto.
Ma se questo è il principio generale, e nonostante le reti neurali funzionino perfettamente, succede quello che avevamo già notato in precedenza, cioè che ai ricercatori sfugge un dettaglio importante: non sanno ancora cosa accade di preciso ad ogni livello del programma!!!!
Per cercare di comprenderlo, nei laboratori di Google hanno deciso di invertire il processo, chiedendo al programma di bloccare la sua analisi in punti diversi del processo, e di amplificare l’interpretazione di un determinato livello della rete neurale.

Un po’ come fanno neurologi e psico-neurologi negli esperimenti di ricerca sulla psico-fisiologia dei sogni.
Nello step successivo, i ricercatori hanno fornito come input alla rete, delle immagini di white noise (o rumore bianco, cioè un insieme casuale di pixel), chiedendo poi alla stessa rete di produrre l’immagine di un determinato oggetto.

Di procedere quindi ad un atto creativo, senza ulteriori indicazioni.
Il risultato di questi esperimenti è una serie di immagini raccolte e contenute nell’apposita gallery.
Si tratta di rappresentazioni in cui i contorni e i colori delle figure possono diventare arabeschi psichedelici, quando ad essere amplificati sono i livelli più bassi della rete, quelli che analizzano forme e colori.
O invece pagode, palazzi e animali, cioè figure ben definite e riconoscibili che possono apparire dal nulla, quando l’interpretazione arriva dai livelli superiori.
Il punto importante è che entrambi i risultati, le figure indefinite e quelle definite, risultano guidati da similitudini che solo il computer è in grado di cogliere.
I ricercatori di Google hanno deciso di definirli sogni.

Un termine che può dirsi calzante perché, secondo loro, potrebbero nascondere le radici del primitivo processo creativo di un’intelligenza artificiale.
(Suggerisco a questo punto di vedere la parte del film “2001: odissea nello spazio” che riguarda il comportamento del sistema Hal. Ovviamente quella è fantasia, tra l’altro prodotta negli anni 60, ma descrive qualcosa di simile ad una possibile realtà. Quindi se ieri ci aveva fatto un po’ meravigliare e un po’ sorridere, oggi ci può far riflettere)

QUINTA TAPPA

“Eterni.me”: la realtà ha raggiunto la fantascienza?

Un gruppo di ricercatori del Massachusetts Institute of Technology ha creato la star tap “Eterni.me”, una sorta di avatar che si propone di trasferire ai computer i contenuti della memoria umana e della sua intelligenza. Il risultato dovrebbe essere qualcosa di molto più completo di un semplice data mining (miniera di dati) nel quale ritrovare i ricordi della vita di una persona. Il progetto è di riuscire a ricreare la personalità intera di una persona, utilizzabile anche dopo la sua morte.
In questo modo l’uomo potrebbe dare vita a un altro se stesso, un “io” virtuale.
E questo emulo di noi stessi potrebbe continuare a vivere per sempre, interagendo con i nostri cari, amici, discendenti, per mesi, anni, secoli dopo la nostra morte.
E’ molto di più di ciò che avviene oggi nel campo della pubblicità su internet e del marketing. Ognuno ormai dovrebbe sapere che i vari Google o Amazon o Netflix raccolgono i dati che noi lasciamo sulla rete, più o meno involontariamente, per scoprire le nostre tendenze e proporci i prodotti che più le accontentano.
E’ anche di più di ciò che sta già avvenendo da tempo con le Maching learning, le macchine ad autoapprendimento, di cui ho scritto prima, che traducono i dati in input in risposte a diversi tipi di domande. In questo modo sono in grado, per esempio, di trovare cure mediche al cancro, eccetera.
Se la scommessa di “Eterni.me” andrà in porto, dovrebbe funzionare meglio con il passare del tempo, diciamo crescendo. Nel senso che l’individuo dovrebbe contribuire ad arricchire e a perfezionare il proprio avatar post-mortem, man mano che invecchia, nel corso della propria vita terrena.
Questo “Io virtuale” viene infatti ricostruito da un computer che ha pieno accesso all’impronta digitale che ognuno di noi lascia dietro di sé: chat, e-mail, foto, curriculum professionale, tutti i “mi piace” e i “non mi piace” che abbiamo espresso, i nostri acquisti, dai pantaloni ai libri, dalla musica ai video-giochi, dai viaggi alle medicine, eccetera.
Chi davvero usa internet non si rende neanche conto di quanto di sé abbia espresso e continui a esprimere ogni giorno e ogni ora che passa on-line.
Tra parentesi, c’è già una legislazione, anche se in un solo stato, che regola il diritto di eredità del materiale web prodotto da un certo soggetto. E’ recente infatti la notizia che lo Stato del Delaware ha passato una legge che prevede che tutto passi ai suoi eredi legittimi, dalle foto di Instagram agli acquisti su iTunes, le password dell’iPhone e iPad ecc. Secondo questa legge, la vita virtuale finirà con la vita reale ma resterà in mano agli eredi.
Tranne quella di “Eterni.me”.
Quella dovrebbe cominciare proprio quando la vita vera si spegne. Interessante, vero?

Nel progetto di Eterni.me un computer dovrebbe accorpare tutte le informazioni web e costruire una personalità virtuale, usando gli stessi algoritmi delle reti ad auto apprendimento.
A quel punto, proporrà anche il nostro aspetto fisico tridimensionale, così che il nostro avatar immortale sia completo.
I nostri bisnipoti potranno fare telefonate in Skype con noi, promettono gli ideatori.
Ma non siamo affatto sicuri che si fermerà a una riproduzione fedele dell’originale e non decida invece di prendere iniziative autonome usando il nostro nome, il nostro aspetto, la nostra memoria e l’intera nostra personalità.
Avete presente cosa significhi che due o tre colossi dell’informatica possano mettere in azione i nostri avatar e farli agire per i loro interessi?
Beh, non sono tanti quelli che ci pensano. Lo dimostra il fatto che la proposta di Marius Ursache, uno dei giovani ideatori di “Eterni.me” ha ottenuto molte risposte entusiastiche, così tante che già decine di migliaia di persone si sono messe in fila per entrare nel programma.

Nonostante si tratti di un programma ancora allo stadio sperimentale.
Possiamo anche chiederci perché ma in senso sociale ci daremmo delle risposte che servono a poco.
Per esempio potremmo dire che si tratta per molti di una forma di narcisismo: avere l’ammirazione di cui non si è goduto prima di morire o semplicemente non essere dimenticati.
Oppure potremmo attribuire la loro scelta alla paura della morte.
In fondo, l’essere umano, salvo poche ammirevoli eccezioni, non si è mai rassegnato di dover terminare la propria vita, di non essere più! Ha inventato filosofie, pratiche d’ipnosi regressiva, religioni, ibernazione e riti di ogni tipo pur di esorcizzare la morte.

Oppure, possiamo pensare a casi di grande generosità: la preoccupazione che chi resta non soffra troppo per la mancanza della persona cara. In ogni caso siamo davanti all’ultimo tentativo di vivere in eterno, ma queste riflessioni attualmente non sono utili a fermare il progetto, in attesa che ci siano garanzie che verrà usato solo a scopi positivi. 

Ma vediamo quanto verosimile può essere il nostro avatar.
Poche settimane fa, dei programmatori russi, in perenne concorrenza con quelli americani, hanno creato l’avatar di un ragazzo di 13 anni, battezzato Eugene Goostman.

L’avatar ha chattato con centinaia di persone: ebbene il 33 per cento ha creduto che fosse una persona vera, non qualcosa di artificiale.
E’ stata la prima volta nella storia dell’intelligenza artificiale che un computer ha superato il “Turing Test”, cioé è riuscito a farsi credere un essere umano, anche se solo un ragazzino di 13 anni, da almeno il 30 per cento degli interlocutori. E probabilmente in questo momento quella percentuale è già cresciuta di molto.

Insomma, come dagli anni 50/60 c’è stata la corsa agli armamenti nucleari, una gara non ancora conclusa, da qualche tempo è iniziata la corsa alla creazione di persone artificiali.
C’è solo da sperare che anche in questo caso vi sia un modo per rendere utile a tutti un’invenzione che attualmente ha molti aspetti allarmanti.
Il perché ho cercato di spiegarlo ma forse lo riassumo meglio mettendo insieme la conclusione della quarta parte di questa relazione con quella della quinta.
Nella quarta parte abbiamo notato come le rappresentazioni autonomamente prodotte dalla rete virtuale, le similitudini che solo il computer è in grado di cogliere, insomma i cosiddetti «sogni virtuali» possono definirsi “processo creativo di un’intelligenza artificiale”. E abbiamo sottolineato la parola “creativo”.
Un processo di cui non si conoscono ancora tutte le fasi, un processo che ha una notevole parte ancora sconosciuta, che per questo ho definito “inconscio tecnologico”.
Nella quinta parte abbiamo visto come si riproduce una personalità, e in fondo un individuo, e come un computer sia riuscito a farsi credere un essere umano.
Ovviamente, lascio a voi le riflessioni del caso.

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