Un giovane uomo dalla prorompente attività sessuale mi ha chiesto se il suo comportamento poteva essere definito “bulimia affettiva”. A parte la sovrapposizione tra affettività e sessualità, della cui correttezza discuteremo in seguito, vediamo di definire la bulimia perché mi pare che nella sua domanda ci fossero altri importanti elementi di confusione.
Per bulimia s’intende avere “una fame da bue” (dal greco: bôus=bue e limòs=fame).
Non una fame da toro ma da bue.
E già questo distinguo mi stimola una prima riflessione.
Chi ha scelto il termine bulimia ha marcato, forse inconsciamente, la differenza tra quella che Freud ha chiamato “fase orale” da quella che ha chiamato “fase fallica”. Queste due fasi della prima infanzia, che caratterizzano la formazione della personalità in senso psicoanalitico, separano il momento in cui c’è una prevalenza di energia (o come dice Freud, di libido) sugli apparati che servono alla nutrizione (più o meno fino ai 2 anni), dal momento in cui la libido investe prevalentemente l’apparato genitale (all’incirca dai due fino ai 5 anni). Lo terremo presente come primo elemento.
C’è un secondo pensiero che mi viene e che porta a considerare sia la fame in senso fisiologico sia quella in senso psicologico. Infatti nella primissima infanzia il cibo è fornito dalla mamma, con tutto l’affetto di cui è capace in quel momento, quindi diventa automatica l’associazione tra mamma, affetto e cibo. Man mano che passano gli anni la mamma viene ricercata in persone che possono sostituirla. Quando si arriva al partner, con la fame affettiva arretrata, si può cercare la sua costante presenza nell’illusione che sia garantito l’antico nutrimento, cioè l’affetto, e può succedere che l’inconscio porti esattamente alla scelta di un sostituto mamma prima che di una persona adulta.
Infine c’è un terzo dettaglio da non trascurare nell’espressione iniziale, e cioè che aver fame non corrisponde a mangiare.
Aver fame è l’espressione di un bisogno che provoca la pulsione a cercare il cibo, e questa a sua volta potrebbe tradursi nell’atto del mangiare. Potrebbe ma non è automatico, come ben sanno troppe persone oggi.
Tornando alla prima distinzione, il toro non è famoso per la sua fame di cibo ma per la sua potenza sessuale, mentre al bue, privato degli attributi genitali e privo di capacità sublimatorie per quel che ne sappiamo, si attribuisce il solo desiderio del cibo.

Ma le cose non stanno esattamente così per l’essere umano e questo lo vedremo tra poco
La fame attribuita al bue risulta inevitabilmente insaziabile, quindi infinita, perché è la pretesa di una soddisfazione totale, impossibile data la sua condizione; insomma il bue esige, in modo istintuale e automatico, che sia soddisfatta, attraverso l’apparato orale, anche la parte sessuale che invece gli è stata tolta.
Riportato il paragone all’essere umano vediamo che cosa succede.
Abbiamo già notato la differenza tra chi vive di un desiderio che non può essere esaudito e chi agisce in modo da soddisfare sempre il proprio desiderio.
Il personaggio del primo caso, paragonato al bue, avrebbe tentato di trasferire, o di rivivere, la carenza della fase affettivo-orale sulla successiva fase fallica o affettivo-sessuale.
Un tentativo non volontario ma dovuto semplicemente alla crescita: si sarebbe insomma ritrovato nei 3-5 anni, quando c’è l’invasione dalla prima e potente pulsione sessuale, nella condizione di chi aspetta ancora di avere il cibo (mamma-affetto) dei primissimi tempi.
A questo punto possono entrare in funzione almeno due comportamenti di difesa: del primo parliamo ora, del secondo parleremo in seguito.
Il primo tentativo di difesa rispetto all’angoscia incamerata è il ricorso allo sfogo aggressivo/regressivo: può succedere che la persona si arrabbi molto e con quella fortissima rabbia regredisca, ritorni alla mamma (affetto-cibo) per riuscire a riprendersi il dovuto.
Questo tipo di persona utilizzerebbe la libido della prima fase, la sommerebbe a quella della seconda e con un simile potenziale vorrebbe ottenere la sola soddisfazione desiderata. Senza considerare purtroppo, che il termine “desiderata” vuol dire che è mancante. Fino a quando è desiderata non può che essere mancante.
Un’altra soluzione difensiva sarebbe il ricorso alla fantasia, non la farebbe arrabbiare, subito, ma sarebbe assolutamente illusoria, Questa persona potrebbe essere tentata di utilizzare l’immaginazione inconscia per recuperare tutto l’affetto che gli sarebbe spettato nei primi momenti di vita reale.
Potenza della fantasia ma solo della fantasia. Resta un’illusione e contiene la paura di chi non può contare su qualcosa di concreto, di qualcosa che non può avere nella realtà.
Infatti non è possibile nella realtà riavere ciò che non si è avuto in passato: ne va preso atto, bisognerebbe mettere indietro l’orologio e forse, in questo caso, cambiare mamma.
Come detto, ci si può riuscire solo attraverso la fantasia ma col risultato deleterio di costruire illusioni, quindi depressioni e possibili allucinazioni.
Il ricorso massiccio alla fantasia provocherebbe uno sbilanciamento dello sviluppo che porterebbe la persona a fissarsi illusoriamente alla fase non risolta, sacrificando la possibilità di vivere normalmente la fase successiva.
La fame così trasmessa, derivante dal primo vuoto affettivo-orale è comunque piena di paura e di rabbia e diventa sempre più esagerata man mano che accumula l’energia della fase successiva.
Per dare un’immagine, possiamo dire che in questo caso il bisogno insoddisfatto si trasforma in fantasia onnipotente e si getta come una valanga sul bisogno naturale e reale del periodo dello scambio amoroso-sessuale, pretendendo di essere soddisfatto come farebbe il neonato con il seno materno.
Operazione ovviamente impossibile perché ogni fase ha una sua fisiologia e psicologia d’esecuzione.
Il risultato più probabile quindi è di trasformare la persona in un essere ansioso, deluso e arrabbiato col mondo intero.
E fin qua abbiamo parlato di fantasie, cioè di meccanismi di difesa che vengono chiamati in causa per sopperire almeno in parte a mancanze concrete insopportabili. Abbiamo parlato della fame, che come abbiamo visto non appartiene all’area delle azioni ma a quella dei bisogni, dei desideri e degli impulsi.
Parliamo ora del passaggio all’atto, cioè della realizzazione dei sentimenti legati al vuoto affettivo-orale, della reazione concreta alle paure, alla rabbia alle angosce. Trattiamo del gesto del mangiare bulimico invece che del suo solo desiderio.
Trattiamo della persona che porta il sintomo e lo vive in tutta la sua tragica e conflittuale realtà.
E chiariamo subito che l’obiettivo della persona bulimica non è tanto quello di mangiare, ma è quello di annullare gli effetti nutritivi del cibo e di chi lo rappresenta. In altre parole, il suo scopo conflittuale, nevrotico, è quello lottare da un lato contro l’idea che la mamma possa essere qualcosa di buono, d’importante, di necessario, dall’altro contro l’idea nefasta che la stessa mamma l’abbia trascurata, negata, abbandonata.
Il conflitto è tra il bisogno di succhiare ancora tanta mamma e la rabbia infantile derivante sia dalla carenza subita sia dall
a previsione di doverla perdere del tutto.
Tra parentesi, la previsione di perdita può derivare dall’ansia della mamma stessa, o dal trauma di una separazione tra genitori (vera o costantemente paventata), oppure da una grave malattia e dalla successiva morte della mamma.
L’obiettivo della persona bulimica è sostanzialmente vomitare per esorcizzare l’angoscia della separazione. La ripetizione compulsiva del gesto la illude di poter raggiungere la condizione di distacco emotivo che fantastica sia necessaria a vivere in pace.
Naturalmente la fantasia umana ha ideato diversi modi di vomitare: in senso stretto e in senso figurato. Sono differenti le modalità che servono per cancellare ciò che di buono c’è nel venire nutriti, ma ognuna di queste modalità porta allo stesso risultato: evitare la gratitudine verso la mamma, restare legati a lei nella rabbia anziché nell’amore. Non c’è bisogno del gesto del vomito vero e proprio, anche perché quello è eclatante e mal visto a livello sociale.
Invece, per esempio si può eliminare subito il nutrimento attraverso un’attività fisica esagerata, e questa pare caratteristica più maschile che femminile. Tra l’altro in questo modo si possono immaginare almeno tre risultati: si annullano idealmente i vantaggi del nutrimento, sperando così di separarsi dal conflitto con la madre; ci si può guardare allo specchio illudendosi che un corpo muscoloso sia sinonimo di virilità, quindi di essere passati alla fase fallica; infine si può fantasticare d’essere più forti o più abili del padre e di allontanare così l’angoscia di castrazione, caratteristica del complesso di Edipo.
Un’altra possibilità è riempirsi di purghe in modo da costringere l’intestino a non completare il processo di assimilazione del nutrimento, costringerlo ad espellere più in fretta possibile, accettando ovviamente il dolore fisico come espiazione delle proprie fantasie aggressive.
Oppure si possono fare grandi digiuni post abbuffate, avendo uno scopo simile alla modalità precedente ma disegnando con maggiore precisione l’andamento conflittuale dei sentimenti: prima l’ingordigia che rappresenta l’esasperazione della fame (affettiva) poi la mancanza totale in rappresentanza del bisogno di restituire la separazione.
Abbastanza spesso possono essere scelti i cibi peggiori, o quelli surgelati da ingurgitare così con tutto il ghiaccio, in modo da procurarsi il disgusto necessario per un vomito quasi immediato. In questi casi il messaggio inconscio è ancora più netto perché parte dal presupposto che la mamma sia stata cattiva sin dall’inizio e che la coazione a ripetere riproduca le emozioni più negative come a cancellare il conflitto con la componente più buona. Insomma in questo caso non c’è un cibo buono che si vomita perché diventa cattivo, come una mamma che prima ha nutrito (buona) poi si è allontanata (cattiva), ma nella fantasia avrebbe prevalso una sola versione della mamma: quella cattiva.
Alfredo Rapaggi