Elogio della paura

In una delle pochissime foto che mi sono rimaste dell’infanzia avevo un paio d’anni ed ero in campagna. L’unica in cui ero solo con mia mamma. A dire il vero c’era un altro con noi e mia mamma mi proteggeva perché pare che io fossi terrorizzato ogni volta che quello mi si avvicinava.
I miei fratelli mi hanno sempre preso in giro per questa immotivata paura: ora capisco che non potevano capire. Secondo logica avevano ragione: un pavone può diventare bellissimo all’improvviso, ma non è pericoloso.
Secondo il mio inconscio però avevo ragione io, solo che l’ho imparato da grande, quando ormai avevo fatto indigestione di sfottò.
C’era la guerra e ogni volta che la città veniva sepolta dalle bombe la mia numerosa famiglia sfollava in campagna.
Questa è cronaca, di mio non ricordo che pochi dettagli.
So che viaggiavamo tutti su un camion di notte, in silenzio, questo lo ricordo perché l’abbiamo fatto finché è durata la guerra.
In quell’anno io ero l’ultimo o forse il penultimo, comunque credo che mi tenesse in braccio la tata o che cercassi protezione da una delle mie sorelle.
A me sono rimaste tracce di paura e tracce più grandi di fiducia.
Oggi so che la paura non mi serviva molto, anzi, per me era dolorosa, ma per Biagio, l’autista, era preziosa, era molto preziosa.
La paura, cioè la coscienza di viaggiare in mezzo al pericolo di bombe e formazioni militari, lo spingeva ad essere guardingo ma lucido, a cercare strade secondarie dove poteva procedere a fari quasi spenti, con la luce dell’esperienza più che della luna. Strade sconnesse e polverose dove però poteva fermarsi tra amici, se serviva un provvisorio rifugio.
La paura lo rendeva scaltro, guardingo e dunque paradossalmente sicuro.
Era molto conosciuto in zona, come se la gente gli affidasse la propria paura e si sentisse in qualche modo protetta. Così lo contattava chiunque volesse spostarsi nel pericolo.
Ma dentro il camion, tra noi, quella che girava di più era questa filastrocca:  “non avere paura, a te non serve, cacciala via, la paura serve a Biagio. A te non cambia niente se hai paura, a te serve star sereno. La paura serve a Biagio.  A te, a me, a tutti serve star sereni”.
La cronaca dice che fosse ripetuta in vari modi, che una mia sorella l’avesse persino musicata sull’aria di diverse canzoncine per bambini. Sicchè ogni volta che voleva cambiava l’aria e tutti la seguivano.
Un bel gioco.
“La paura serve a Biagio” è rimasta una frase usata in automatico tra noi, negli anni, fino ad oggi.
La paura serve a Biagio, significa che serve solo quando si deve fare un’azione concreta e creativa, contro un pericolo reale. 
In questo caso la paura è una difesa dorata, preziosa.
In tutti gli altri casi serve la serenità.
La paura non è l’ansia, teniamo divisi questi due termini, anche se spesso sembrano sovrapporsi.
Se Biagio fosse stato ansioso il suo camion sarebbe rimasto perennemente bloccato.
L’ansia, cioè la previsione che potrebbe succedere qualcosa di pericoloso in un futuro più o meno lontano, è la parente nociva della paura.
Potremmo dire “evviva la paura, abbasso l’ansia”.
Allora perché io dico che avevo paura del pavone?
Il bambino, cresciuto, vi direbbe che il pavone era reale e che lui ne aveva paura solo quando gli si avvicinava. Dunque la sua non era ansia ma vera paura?
Si e no.
Si, perché il pavone era vero, vicino e troppo grande per un bimbo di due anni, soprattutto lo era con quella sua ruota colorata che lo ingigantiva all’improvviso.
No, perché il pavone non era mai stato aggressivo con il bambino, né lo era stato con altri. Girava per l’aia indisturbato a cercar cibo e si fermava ogni tanto a fare la ruota, per attirare l’attenzione di una femmina immaginaria, visto che quella vera non esisteva più.
C’erano dunque un elemento di realtà e uno d’inconscia fantasia.
L’inconscio riusciva in questo modo ad esprimere la ripetuta paura vissuta nella realtà. Quella provata sotto le bombe, o nel trasferimento sul camion, o nei notiziari radio veniva spostata in modo automatico e inconscio sul pavone.
L’ho capito da grande, in analisi ovviamente.

Ho capito che la paura è importante, è sacra, che va conosciuta e accettata come un mezzo automatico di difesa, che non va trasformata nell’ansia di dover affrontare qualcosa di negativo da un momento all’altro.

Ho capito soprattutto che va tenuta circoscritta a un pericolo reale

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