Appoggiato mollemente sulla sdraio del solito baretto, bagno 22, indifferente al sole che appare e scompare velocemente sopra di noi, ascolto una stupenda canzone di Mina. La spiaggia è affollata ma m’importa poco, come al solito. Mi sto facendo trasportare dalla musica, mentre le parole pare si confondano tra le tante che s’incontrano e si scontrano tutt’attorno. Vicino a me sta succedendo qualcosa che avvelena per un attimo il clima. Lo capisco dai gesti, dal linguaggio del corpo. Un uomo si alza di scatto, gettando in alto il braccio destro, e s’avvia nervoso verso la strada. La donna che gli stava accanto porta la testa tra le braccia e si mette a pancia in giù. In quel momento sento le mie labbra che si distendono in un sorriso un po’ sornione e mi ritrovo a canticchiare con Mina: “e se domani io non potessi rivedere te…”. La signora alza la testa e si gira severa verso di me. “Mi scusi non ho fatto apposta”. Non la convinco per niente, ma il sogno finisce qua.
Un sogno nel sogno quelle parole.
E se domani io non potessi rivedere te, che cosa immagino che succederebbe di brutto.
Oppure di bello, perché no, gettiamo via la previsione negativa e liberiamoci così dell’ansia. in fondo siamo nel campo delle ipotesi.
La signora che ha messo la testa tra le braccia, singhiozzando, e mi ha guardato severa, forse pensando che volessi prenderla in giro in un momento per lei tragico, mi sta facendo ricordare una persona che non tollerava che io cantassi. Una ragazza, certo. In un lungo viaggio fatto all’inizio del nostro rapporto mi aveva incoraggiato a cantare per tutto il tempo, notte compresa. Diceva che cantavo benissimo e io, bellamente stupido come si è quando ci s’innamora, le avevo creduto. Solo dopo ho capito che, oltre a sedurmi, voleva tenermi sveglio e attento alla strada, visto che sulla macchina c’era anche lei. Che delusione. Dopo quel periodo infatti, il mio canto aveva cominciato e continuato a infastidirla ogni giorno di più. A me scappa di cantare, non lo faccio apposta, ma pareva che fossi diventato all’improvviso stonato, o peggio stridulo, o ancora, dispettoso. Non si tratteneva dal dirmelo.
Qualcosa non mi tornava. Credevo d’essere sempre lo stesso e di avere ragione, ma il mio inconscio diede ragione a lei e decise di smetterla. Mi sentivo decisamente ferito, più di quanto non fosse logico.
Passarono anni, finché ripresi a cantare: fu dopo aver fatto una seconda associazione, più lontana nel tempo e più vicina alla psiconalisi.
Mio fratello più grande non voleva che io cantassi, voleva cantare solo lui e lui cantava proprio forte. Non so se più forte di me all’inizio, ho davvero seri dubbi, ma so che lui ha preso la sfida più seriamente e in seguito ha studiato per impostare la voce. Faceva continui gorgheggi in casa a tutte le ore: fastidiosissimo, come una confraternita di grilli in una silenziosa notte d’estate, in montagna.
Aveva certamente ottenuto l’attenzione degli abitanti delle tre strade che s’incrociavano sotto le nostre finestre, ma per me era insopportabile.
Il canto lo vivo come un’espressione spontanea, che libera l’emozione del momento, appena guidata dalle parole. Premesso che ognuno fa bene ad usare la musica come vuole, io non riesco a metterla in prigione. Anche se capisco che le note e le altre regole sono necessarie per costruire modelli utilizzabili da tutti, come è necessaria una grammatica per comunicare con le parole, ho un certo fastidio al pensiero di attenermi a questo Super Io. Emozioni e pensiero non viaggiano spesso sulle stesse rotaie.
Il canto spontaneo è una forma catartica, di quelle che Freud mette nelle sublimazioni, cioè nelle attività parallele e sostitutive dell’espressione sessuale.
Teoria che trova totalmente d’accordo anche il mio psicoanalista, che anzi la rinforza ogni volta che può.
Nel sogno, il mio canto, lungi dall’essere la volontaria presa in giro temuta dalla signora, penso che fosse la soluzione del mio inconscio. Una soluzione trovata in modo repentino per difendermi dalla scena dell’improvviso abbandono a cui avevo assistito. Era successo che, davanti a quella scena dolorosa, il mio inconscio aveva acchiappato al volo le parole di Mina mettendole come titolo del prossimo possibile progetto, rimuovendo e poi negando l’esistenza della parte insopportabile.
Ecco perché la mia reazione era stata contraria a quella che stavo vedendo.
“E se domani io non potessi rivedere te” è una frase che fa male. “Vorrei vederti, non posso ma non so se riesco ad accettare la mia impotenza:” ecco che cosa significa. Da quel momento dovrei decidere se seguire la strada disegnata dalle esperienze precedenti, con previsione di essere di nuovo censurato e svalutato, oppure liberarmi da quei pensieri e dagli antichi legami che ancora li producono.
Se scegliessi la seconda soluzione, non mi strapperei i capelli pensando all’abbandono, ma cercherei una compagna diversa, e magari la troverei anche migliore.
Questo infatti mi suggeriva l’inconscio mentre mi tappava gli occhi e mi distraeva, invitandomi a canticchiare ironicamente.
Nel sogno, la signora si stava disperando perché la sua felicità dipendeva da quell’uomo che l’aveva sgarbatamente mandata a quel paese.
Nello stesso sogno io disegnavo una conclusione differente, dettata dall’inconscio, per evitare che si avverasse anche per me la tragedia che avevo letto nei suoi occhi.