Relazione di Alfredo Rapaggi al Congresso Internazionale di Psicoanalisi
della Coppia e della Famiglia tenutosi a Bordeax nel luglio 2014
Intendo partire da quattro aspetti che riguardano l’importanza determinante del corpo sui vari setting psicoanalitici.
Da qua intendo dimostrare come si possano ottenere differenti e migliori risultati terapeutici a seconda di come si considera e si utilizza il corpo.
Per conseguenza intendo sottolineare l’importanza della confidenza che ha lo psicoanalista col corpo, simbolico e reale, e quanto questa confidenza o il suo contrario, la censura, pesi sul risultato psicoterapeutico.
In ogni setting sono presenti vari aspetti del corpo.
- il corpo simbolico che rappresenta l’insieme di affetti e di schemi relazionali che si sono prodotti all’interno di ogni famiglia e che poi si tramandano da una generazione all’altra;
- il corpo reale del neonato che viene accolto, o respinto, in una famiglia, che si deve adattare ai desideri consci e inconsci dei genitori, dei fratelli, eccetera… (questo corpo svilupperà movimenti difensivi che insieme e col tempo formeranno una postura tanto distorta quanto difficile sarà stato l’adattamento);
- il corpo simbolico che si costruisce nella relazione di transfert del setting psicoanalitico individuale;
- i due corpi fantasmatici, quello del paziente e quello dell’analista, che aleggiano nello stesso setting ( in questo setting quelli reali esistono ma passano in secondo piano);
- il corpo e i corpi agenti, in modo sia simbolico che reale, sia conscio che inconscio, nello psicodramma psicoanalitico, nella sua triplice versione (in gruppo, in individuale e in coppia).
Il tema del corpo nel setting individuale è stato dibattuto a lungo da quegli psicoanalisti che hanno cercato di stabilire le differenze di risultati tra la modalità classica, che mette il paziente in una posizione “cieca” rispetto all’analista, e le modalità alternative, che mettono il paziente e l’analista di fronte.
Personalmente non derogo dalla prima modalità, se non, ovviamente, nelle prime sedute di psicodiagnosi, oppure in occasione di colloqui di psicoterapia breve, con obiettivo sul sintomo (di qualunque tipo esso sia)
Nella psicoanalisi individuale il corpo è soprattutto una proiezione delle fantasie del paziente, e in controtransfert dell’analista. I corpi reali sono pressoché sconosciuti ad entrambi (salvo contaminazioni con altre modalità psicoterapeutiche) e non entrano mai in contatto tra loro, se non a inizio e fine seduta, nel momento del saluto. E nemmeno sempre.
Certo, sono corpi che si ascoltano e si parlano, che a volte si percepiscono e che si lasciano investire dalle emozioni, ma mantengono le distanze che permettono di restare ognuno nella propria “zona intima”, come Vera Birkenbihl chiama la distanza tra i corpi rappresentata dall’estensione delle braccia di ognuno. Il corpo del paziente ha diritto di seguire i viaggi suggeriti dalla fantasia e dai collegamenti emergenti man mano che le catene associative si moltiplicano. Ha diritto di vedersi solo o in compagnia di altri corpi che proietta e rivive nell’analista. All’interno della sua zona intima, in quello spazio fisico determinato dalle sue braccia e dalle sue gambe in espansione, il paziente ha diritto di non incontrare corpi estranei alla sua vita vissuta.
La validità di queste osservazioni è provata anche dalle difese, a cui il paziente ricorre quando lo stato emotivo di un argomento si fa troppo coinvolgente. Egli può cercare allora di voltarsi verso l’analista, di mettersi in una posizione in cui lo vede e lo controlla, o di coinvolgerlo sul piano di realtà. Può cercare un contatto vero, quello coccoloso che la bimba e il bimbo cercano in un genitore, o può cercare di sedurre l’analista attraverso una più o meno velata promessa sessuale. Ma il suo diritto resta intatto: può sognare, fantasticare, desiderare, delirare senza temere un’invasione fisica vera.
Tutto questo succede nel setting individuale classico, dove la relazione è essa stessa un corpo, nel senso di insieme di vissuti che provengono dalle esperienze che entrambi i partecipanti hanno provato fino a quel momento. Si tratta della ripetizione di una simbiosi che pian piano deve aprirsi e accompagnare il paziente alle fasi successive della sua nuova formazione. Al riparo, questa volta, dai conflitti che ha conosciuto in famiglia, quando non poteva ancora affrontarli in modo adeguato.
Ma se questo stesso paziente portasse la sua analisi in un gruppo o in un setting di coppia, che cosa succederebbe?
In gruppanalisi il corpo, nel senso di somma di esperienze, si dilata oltre il numero normale dei membri di una famiglia e il corpo reale entra in un contatto più forte con altri , pur mantenendo quasi sempre distanze abbastanza definite entro la zona intima.
Ma attraverso gli occhi vede bene gli altri partecipanti e vede l’analista.
Nota gli sguardi che s’incontrano, quelli che lo evitano o si evitano, si accorge delle differenze di espressioni, quindi di sentimenti veri consci o inconsci ma comunque espressi, e vi deve far fronte realmente. Percepisce meglio gli umori, sente meglio gli odori, vede i dettagli attraverso i vestiti, i capelli, la postura degli altri corpi e i loro movimenti. Insomma, ha a disposizione l’intero linguaggio del corpo di chi lo circonda: può accorgersi del proprio imbarazzo e delle difese che mette in atto. S’impegna a controllare se stesso, in un lavoro per niente semplice, anche se in parte ricorda di aver già svolto con più o meno successo nel corso della sua evoluzione.
In questo tipo di gruppo la componente di realtà prende una certa fetta di mondo fantasmatico e porta l’analisi a guardare in prevalenza ai risultati dei conflitti (sintomi) prima che alla loro genesi e alla loro involuzione psichica.
Restano le catene associative, quando vengono sollecitate, a fare da congiunzione tra gli stimoli corporei del momento e gli avvenimenti e le fantasie del passato.
Ma l’analista sa che tra i membri del gruppo, specie quando è continuativo, si creano alleanze e sentimenti profondi che spesso vengono vissuti più come reali che come simbolici, anche quando non hanno possibilità di attuazione.
Dunque i corpi nella gruppanalisi sono molto più veri e soggetti a stimoli reali di quelli che partecipano alla seduta individuale nel setting classico, pur restando ancora ad una certa distanza e spesso bloccati, relegati, ognuno di loro, su una sedia.
Sulla scena dello psicodramma la situazione cambia ulteriormente: si aggiunge l’azione, il movimento libero di ogni corpo nello spazio occupato anche da altri. L’azione può essere quella del protagonista con gli Io-ausiliari o con altri membri del pubblico o con lo stesso analista. Esiste quindi la possibilità che entri in gioco anche la zona intima.
In verità, a seconda del tipo di psicodramma di cui si vuole parlare le variabili possono essere anche molto differenti, perciò prendo come esempio lo psicodramma psicoanalitico che utilizzo nella scuola che dirigo. Nello spazio di questo tipo di psicodramma ( dove “analitico” è la semplice abbreviazione del termine psicoanalitico) si mettono in scena episodi realmente vissuti, o sognati o fantasticati o che si pensa che possano accadere.
Il setting è molto simile a quello dello psicodramma classico di Moreno e gli elementi sono gli stessi: “palco”, protagonista, Io-ausiliari, pubblico e infine l’analista-regista.
La differenza con quello moreniano sta solo nell’importanza che viene data alle tecniche d’indagine tipiche della psicoanalisi. Vengono quindi usate spesso le catene associative per accompagnare dal presente al passato e di nuovo al presente. Vengono messe costantemente in evidenza i vari tipi di difese e resistenze e si dà particolare importanza alla simbologia, cioè al valore delle attribuzioni affettive date ad ogni simbolo. Infine, nella fase di verbalizzazione, dopo le condivisioni possibili fatte dal pubblico l’analista, e solo l’analista, può dare interpretazioni se lo ritiene necessario.
Le persone che giocano questo psicodramma analitico, e cioè protagonista, Io–Ausiliari e pubblico, sono reali ma quelle che essi richiamano dalla memoria non sono presenti e a volte sono solo nella fantasia del protagonista; I corpi sono reali ma quelli a cui si riferiscono non sono in quel gruppo, su quella scena e in quel momento.
E’ evidente che aumenta di molto il rischio di passaggi all’atto fuorvianti e difensivi.
Passaggi all’atto che infatti si sono sempre verificati, in tutti i gruppi che ho frequentato e in quelli che ho diretto.
Nonostante le raccomandazioni e le spiegazioni, che alcuni analisti da me frequentati bollavano addirittura come proibizioni, si sono sempre verificati casi di passaggio all’atto tra i membri dei gruppi.
Tecnicamente potrebbero essere considerati dei piccoli fallimenti, giacché i meccanismi di difesa non sono riusciti a controllare l’angoscia sottostante quando hanno deciso di trasformare in vissuti le fantasie sessuali o aggressive, ma io preferisco pensare che possono trasformarsi in materiale prezioso per l’analisi di ogni persona che ne resti coinvolta, purché vengano convenientemente elaborati.
A questo punto è chiaro che la differenza tra il corpo che si trova nel setting individuale classico e quello che agisce nel gruppo, tanto più nello psicodramma, è una differenza abissale.
La necessità di setting e tecniche differenti.
Gli anni mi hanno portato a cercare setting e tecniche differenti per personalità e per situazioni diverse.
Col tempo, e con l’aiuto importante di Jung, di Rorscharch e altri, ho isolato due grandi variabili all’interno del vasto universo delle persone e dei problemi ad esse legati. Due grandi variabili che caratterizzano il modo di stabilire una relazione: introversione ed estroversione.
Queste due caratteristiche opposte non si trovano mai allo stato puro in una persona poiché dipendono sia dalla tendenza naturale (e non solo da quella genetica) sia dall’interiorizzazione delle tendenze che appartengono all’ambiente familiare. E’ semplice pensare che una persona tendenzialmente introversa che cresce in un ambiente estroverso dovrà adattarsi alle esigenze di questo e per farlo distorcerà in qualche modo la sua tendenza relazionale naturale. La distorcerà in misura proporzionale al gap esistente tra se stessa e gli altri familiari e in proporzione all’equilibrio psichico in cui viene a trovarsi.
Questa considerazione, che un continuo approfondimento del test di Rorschach mi ha aiutato a rinforzare, è diventata pian piano la base su cui fondo la scelta del setting.
Ovviamente non ho smesso di considerare anche il tipo di contatto con la realtà, ma a parità di equilibrio e prescindendo dalle cause in sede di diagnosi, diventa determinante quanto una persona si sia dovuta distanziare dalla tendenza naturale, cioè quale sia la misura della distorsione della sua tendenza relazionale naturale.
Dunque, anche e soprattutto introversione ed estroversione acquisite stabiliscono quale sia il setting più efficace per ogni persona.
Per abbreviare: una persona estrovertita (portata dall’ambiente familiare a distorcersi in modo estroverso) troverà più efficace il setting individuale, anche quando dicesse di preferire quello di gruppo. Viceversa una persona introvertita avrà maggiori benefici in un setting di gruppo.
Devo aggiungere che prima di portare una persona introvertita nel gruppo di psicodramma analitico mi assicuro che abbia acquisito bene le informazioni necessarie a lavorare con le tecniche psicoanalitiche e soprattutto che si senta accompagnata da una buona alleanza con il suo analista.
In ogni caso, ho sperimentato che lo psicoanalista che mira ad ottenere un risultato ottimale nel tempo più breve possibile non può non tener conto di queste due variabili acquisite.
Corpo e controtransfert
E’ noto a tutti i colleghi come le componenti nevrotiche non elaborate dello psicoanalista entrino in collusione con quelle del paziente e formino uno dei principali ostacoli alla riuscita dell’analisi.
Meno noto, penso a causa di resistenze più tollerate e spesso elogiate socialmente, è che la scarsa confidenza che uno psicoanalista ha col corpo reale rappresenti un ostacolo, a volte molto grande, alla riuscita di un’analisi in gruppo (gruppanalisi) e ancor di più di uno psicodramma analitico del tipo descritto sopra. In questa mia ultima considerazione c’è pochissima teoria e molta esperienza, perciò la sottolineo con convinzione.
Il setting di coppia.
Come premessa userei un’espressione paradossale: “il setting di coppia non esiste come tale”. Anche se io stesso ne parlo in questi termini per convenzione, non lo riconosco nella sua unicità. Esistono il setting individuale e quello di gruppo con le loro variabili possibili, ma quello di coppia no.
Ci sono arrivato col tempo e dopo molti tentativi, concettualmente sbagliati, di trovare una modalità che andasse mediamente bene per tutti.
La psicoanalisi della coppia può utilizzare diversi setting che fanno già parte degli altri campi: può essere in forma di colloquio vis à vis, come se fosse una psicodiagnosi ma condotto con la cadenza tipica della psicoanalisi; può essere quello dello psicodramma in gruppo, dove ogni partner della coppia ha il suo momento di protagonismo, con gli Io-Ausiliari e il pubblico a sua disposizione; o dello psicodramma con la sola coppia, in cui l’analista è supportato solo da due Io-Ausiliari specializzati o anche nelle forme intermedie tra colloquio e psicodramma, in cui l’analista propone alcune inversioni di ruolo o altre tecniche fattibili senza gli Io- Ausiliari.
Ma il punto più importante è un altro: su quale base noi decidiamo che un setting sarà più efficace di un altro.
Una volta stabilito che entrambi i partner della coppia hanno un equilibrio psichico sufficiente e hanno espresso consapevolmente la volontà d’intraprendere questo percorso, spetta all’analista la decisione di scegliere secondo la sua competenza ed esperienza. Ecco allora che rifacendoci a tutto quanto scritto in precedenza, abbiamo a disposizione due variabili molto utili riferibili ad ognuno dei partner: introversione ed estroversione. Possiamo considerare la loro tendenza naturale e le distorsioni avvenute a causa dell’ambiente familiare.
La distorsione della tendenza naturale costringe i partner ad utilizzare un linguaggio mascherato, inconsciamente falso, frutto della repressione che si rivela attraverso il corpo prima che attraverso le parole. Un linguaggio che nella coppia diventa un corpo comune malformato.
Tocca dunque all’analista scegliere.
E nell’esempio che vi porto ho scelto un setting simile a quello individuale classico. Quando l’ho usato, non so se sia stata solo fortuna, mi ha permesso di raggiungere l’obiettivo che ci eravamo proposti. C’ero arrivato una prima volta durante una serie di colloqui che mi pareva non portassero a niente mentre mi sentivo pressato dal precipitare degli eventi.
Le due persone che avevo in carico non riuscivano a comunicare se non a spot, a volte amorosi a volte rancorosi. Alternavano momenti da favola a litigate furiose.
Si accusavano continuamente, in modo inesorabile; ognuno di loro sapeva esattamente dove colpire e l’altro come accettare la sfida rilanciando. Senza tentare di ragionare. Non si ascoltavano.
Io avevo iniziato con una serie di colloqui tipo vis a vis, ma davanti alle loro resistenze a comunicare e alla loro contemporanea ansia, camuffata dalla voglia di concludere, avevo illustrato alcune modalità alternative. Senza successo, fino ad un certo punto. Non volevano lo psicodramma, né di coppia né tanto meno di gruppo perché entrambi si dicevano introversi e incapaci di manifestare apertamente i loro sentimenti. Ormai non avevano più fiducia nel tipo di colloqui che stavamo facendo perché ritenevano la loro tenacia sado-masochista superiore alla mia competenza. Ma avevano troppo bisogno di un terzo, perchè si accorgevano che la sofferenza stava diventando insopportabile. Quindi mantenevano in me quel tanto di fiducia che mi serviva per cercare nuove strade.
Indagai meglio la loro personalità, partendo dalla tendenza naturale e considerando l’influenza familiare: entrambi estroversi, anche se in misura leggermente diversa, ed entrambi introvertiti.
Illustro il perché della mia conclusione.
Lui, primogenito, cresciuto in una famiglia violenta, dove era impossibile parlare senza urlare o senza essere puniti e picchiati, sia dal padre che dalla madre, a seconda dei casi. Una famiglia descritta come squilibrata anche nel trattamento dei figli. Quando aveva tre anni ha visto arrivara in casa un fratellino: il suo tormento, un bimbo super coccolato e protetto dalla madre e viceversa tartassato dalla gelosia del padre. “Faceva sempre il malato” (usa proprio questa espressione: faceva).”Io l’avrei ucciso davvero invece che sopportare le sue commedie, ma mia madre ci credeva e se lo teneva stretto”. Naturalmente con il suo squilibrio fatto di dolcezze, poche, e di urla e schiaffi. Già dalla prima adolescenza si era dato a droghe pesanti finendo come si può immaginare: morte per overdose.
Descriveva quel fratello un buono a niente, sfaccendato, mentre lui, il mio paziente, era attivissimo sia sul lavoro che in campo sociale. Non riusciva a raggiungere alcun obiettivo duraturo, ma ci provava in tutti i modi. Non aveva mai capito il perché della contraddizione tra quello che avrebbe voluto fare e quello che era riuscito a realizzare. Era alla ricerca costante di una gratificazione narcisistica là dov’era quasi impossibile trovarla: tra le persone bisognose d’aiuto.
La famiglia di lei invece era apparentemente normale: una di quelle che i vicini potevano descrivere come tranquilla, tutto sommato. La madre gestiva la casa, gestiva il suo uomo-bimbo e gestiva la figlia: tutto nello stesso modo. Aveva avuto anche un altro figlio, nato quando la bimba aveva circa tre anni, ma era di salute cagionevole ed era morto di meningite verso gli otto anni. Da quel momento si era chiusa in una depressione da cui non era mai uscita, senza rinunciare al suo ruolo di dux. Il padre era “chiuso” da sempre sicché in famiglia non si parlava e non si ascoltava. L’unica espressione vocale che la mia paziente ricordava erano le sbottate rare ma furiose del padre, fatte quasi sempre per futili motivi.
Questa breve descrizione è fatta solo per capire meglio che cosa l’inconscio di ognuno dei miei pazienti aveva trovato di necessario nell’altro.
Per esempio entrambi erano primogeniti e condividevano l’esperienza di essere stati messi da parte dalle rispettive madri a favore del più piccolo, il quale in entrambi i casi era debole di salute. Debolezza reale o anche psicosomatica.
Entrambi quindi; anche se con modalità differenti, spostavano sull’altro le fantasie aggressive vissute come inaccettabili verso la madre e verso i rispettivi fratellini. Entrambi cercavano di gestire queste fantasie e i relativi sensi di colpa attraverso il partner, visto che avevano inutilmente cercato di proiettarle nel lavoro, con un’attività socialmente utile, quindi espiatoria.
Ma il dettaglio che mi fece scegliere quel particolare tipo di setting era stato il silenzio che avevano dovuto imporsi in famiglia. Un silenzio contrario alla loro tendenza naturale, che aveva distorto la loro personalità in senso depessivo, che li aveva abituati a reprimere le loro parole per caricarle poi della rabbia che avrebbero usato per urlarsi le loro accuse.
Lui e lei denunciavano la mancanza di ascolto da parte dell’altro. Si accusavano in continuazione e continuamente ripetevano “fammi parlare”.
Era dunque evidente che avevano urgente bisogno di uno strumento capace di dar loro la certezza di essere finalmente ascoltati.
Nel setting tipo “psicoanalitico individuale” ho messo regole precise, seguendo uno schema un po’ psicodrammatico. Stanza semibuia per favorire la concentrazione. Uno dei due sul lettino, l’altro disteso sulla poltrona relax. Si parte dal silenzio; il primo che inizia a parlare assume il ruolo del paziente e ha diritto di mantenerlo per venti minuti; l’altro ascolta in silenzio. Poi si fa inversione di ruolo. Nemmeno io interrompo, se non per indispensabili catene associative, ma intervengo solo alla fine, se necessario, per precisare e interpretare.
Come ho detto prima, il metodo ha funzionato e ho deciso di utilizzarlo ancora, ogni volta che si sono presentate le condizioni.
Questo é solo un esempio per scoraggiare chi utilizza sempre la stessa modalità terapeutica anche davanti a casi differenti e per confermare la possibilità di essere duttili e scientificamente corretti nella scelta del setting. Altri esempi li ho descritti altrove, per esempio in “Romanzi di Coppia” che ho da poco fatto stampare anche con traduzione in francese.
Grazie