Chi ha masticato un po’ di psicoanalisi sa che le catene associative sono il sistema più breve ed efficace per arrivare a vedere che cosa nasconde l’inconscio. Chi le fa può scoprire che una parola, carica di senso tragico nella realtà, potrebbe portare al ricordo di vissuti anche piacevoli. Chi le usa sa che possono essere un ottimo sistema per uscire da un labirinto ansiogeno, come quello che ci propone l’attuale situazione sociale. Ci possono essere in effetti momenti della realtà che riescono a procurare più ansia di altri depositati nell’inconscio. In questo caso, diventa più vantaggioso fare un viaggio ogni tanto nella memoria del passato per estrarre qualcosa, tra le esperienze o le fantasie rimosse, che sia più positivo del presente. Così mi è successo tentando una catena associativa con la parola “coronavirus”. Sembra un atto di coraggio ma è solo fiducia nella mia mente allenata e nel metodo di Freud. Intanto l’ho spontaneamente scorporata in due parti: corona e virus. Da corona credevo che avrei rivelato la palese simpatia di mia madre per la monarchia e le conseguenze sul mio carattere. Ma è andata diversamente. Eseguo in modo semplice: corona, ricerca, bar, gioco, fratelli, sfide, rabbia, arbitro. Come si sa, nel dopo guerra c’erano pochi mezzi e bisognava che inventassimo e costruissimo noi bimbi i giochi per divertirci. Uno di questi era il campionato di calcio da tavolo, che nella versione ultima era di basket e molto più complesso. In sostanza, dovevamo andare nei bar e chiedere se avevano dei coperchini, quelli delle bibite per intenderci, quelli col tappo a corona, appunto. Nessuno ci andava volentieri, perché i baristi avevano già umori altalenanti e non sempre erano simpatici e disponibili. Oltre tutto, non c’era quell’abbondanza di bibite in bottigliette venuta in seguito e molti avevano troppo fretta di uscire dalla miseria della guerra. Comunque io mi vergognavo e facevo una grande fatica. Ma spesso si decideva a sorte, con uno dei soliti sistemi tipo “conta” (più o meno truccata) e dopo non ci si poteva rifiutare. Era una delle leggi della famiglia numerosa. Poi però il gioco vero e proprio era appassionante, faceva dimenticare lo sforzo precedente. Sul tavolo da pranzo si allestiva “il campo da calcio”, con le sue brave porte, le linee d’area e di fondo, il disco centrale, i due per il rigore e i quattro per battere i corner. Poi si arrotolava un pezzettino di stagnola ed era fatto il pallone. A quel punto e si piazzavano i coperchini con dentro i nomi dei calciatori delle due squadre e si cominciava. Era semplice, perché non esistevano ancora tutte le strategie che ci sono oggi, c’erano: il portiere, i tre difensori, i due mediani, le due ali, le due mezze ali e il centravanti. Era bello perché la corona di quei tappi impediva al dito e alla pallina di scivolare e permetteva di dare un indirizzo preciso al tiro. Insomma, per merito di quella corona chi era di turno aveva il controllo del gioco. Ogni contendente rappresentava una squadra e faceva la “radiocronaca”, ad alta voce, delle azioni dei suoi giocatori. In questo parevano svantaggiati gli introversi, cioè solo io degli ultimi sei fratelli. Allora non sapevo perché loro avessero tante parole a disposizione e io no. Non che fosse grave, ma non posso nascondere che ci sia rimasto male per un certo tempo, finché un giorno trovai la soluzione più comoda: mi proposi come arbitro e imparai a vedere le azioni da fuori, in silenzio e in modo più obiettivo. Così ero mediamente rispettato dai piccoli e protetto dai più grandi, che non volevano sentir litigare. Come dire: a tutto c’è rimedio. Spesso. Mi fermo altrimenti ci viene un romanzo. Già, perché se gli estroversi possono parlare tanto, quelli introversi possono scrivere almeno altrettanto. A volte troppo. Faccio solo notare che tutto è partito da quella che viene definita la parola stimolo: “corona” in questo caso. Bene, se mi fossi affidato alla sola parte cosciente avrei scritto dell’argomento coronavirus, che adesso abbonda sulla bocca di tutti, e straborda da ogni media. Così mi sarei procurato involontariamente una dose di paura, d’ansia e di rabbia, davvero dannosa. Invece l’inconscio, un po’ aiutato, mi ha difeso e mi ha guidato verso la fase di latenza, dove il gioco è l’elemento essenziale. Il gioco, spontaneamente usato nell’infanzia per conoscere le regole dello stare insieme, allontana anche dalle pressioni che tormentano gli adulti. Il gioco distrae, scarica, stimola e sdrammatizza. Questo è un grande, utilissimo meccanismo di difesa, che andrebbe conservato per un centinaio d’anni oltre l’adolescenza.
E veniamo alla seconda parola, “virus”, che chiama altri ricordi. Anche in questo caso la ricerca spontanea mi ha lanciato lontano dal significato iniziale. Eseguo con la stessa semplicità: virus, vir, uomo, forza, sforzo, papà. E mi blocco. Sembra meno divertente come associazione, ma forse è più utile per l’obiettivo che mi son posto. Rischio di fare un passo indietro nel tempo, rispetto a prima: dalla latenza alla fase fallica. Una fase molto più complessa, soprattutto per i maschi, una fase in cui troverei immagini molto ma molto più dense di emozioni che in questo momento non mi servono. Allora intervengo con un pizzico di volontà e guido la memoria ad un’età simile alla precedente: intorno ai sette anni. A questo punto, nella catena associativa c’è da sottolineare quella parola, “sforzo”, messa tra “forza” e “papà”. Papà era un insegnante che aveva fatto carriera come ufficiale durante le guerre del novecento. Insomma un insegnante militare. Ovviamente ci teneva molto a presentare la sua numerosa prole come esempio: le femmine morigerate e i maschi virili. I maschi non dovevano mai fermarsi davanti ad un ostacolo. Essere forti, sempre, era il comando. Da piccolo mi vedevo già con lo zaino e gli scarponi, marciare nel fango o sotto il sole e arrivare felice alla meta. Che poi non credo d’aver mai capito quale fosse di preciso. Era comunque la fine della marcia, era un premio teorico, era l’orgoglio per papà e questo mi bastava. Subivo certamente i suoi racconti di guerra, ne ho interiorizzati molti e molti li ho poi espulsi, col tempo. In verità qualche immagine è rimasta a lungo incagliata tra i rami dell’albero della mia vita. Per esempio, lo zaino molto pesante: un simbolo chiaro dello sforzo che dovevo fare per essere la persona che voleva lui. Però alla fine credo d’essere diventato soprattutto la persona che volevo io. Forte si, ma anche decisamente tenero. Questo pensiero mi piace e mi serve, mentre attraversiamo, tutti, un momento difficile dal punto di vista sociale. In questo momento serve essere forti, ma serve ugualmente aumentare la dose di tenerezza. Anche questa è gradita, gradita in particolare da chi teme di essere solo, da chi scopre in sé una paura nuova, inspiegabile o appena lontanamente vista in qualche lontana occasione. Più che la malattia adesso sembra avanzare l’ansia di non avere protezione a sufficienza. Io penso che le catene associative, siano un buon modo di farci sentire ancora in compagnia, ancora capaci di trovare la forza che ci ha fatto superare un sacco di ostacoli. Pensiamo alla forza che ognuno ha avuto quando si è alzato in piedi la prima volta, visualizziamolo quel momento, anche se non lo ricordiamo di preciso. Pensiamo a quando abbiamo iniziato, da piccolissimi, ad esplorare un mondo che non sapevamo ancora cosa fosse e quanto fosse sicuro.
A quando abbiamo sentito urla che forse non sopporteremmo nemmeno oggi, da grandi, a quando abbiamo iniziato a confrontarci con i compagni. Ricordiamoci ogni tanto delle persone che ci hanno nutrito e cresciuto, dei tanti momenti che hanno contribuito a formarci. Adesso questo esercizio serve, in particolare se ci siamo abituati, o ci abituiamo, a scegliere le immagini più positive. L’ansia blocca sui dettagli dolorosi la visione delle cose e catapulta la nostra mente sulle previsioni più negative. L’ansia non fa vedere la realtà nella sua interezza, blocca le persone come fa una palude. La persona in ansia non si accorge d’avere lo sguardo della psiche fisso sui dettagli invece che mobile su tutta la realtà.
Succede proprio come se l’orologio dello spazio – tempo si fermasse in una specie di avvallamento da cui sembra non si possa uscire. Serve scrivere nella propria psiche che il mondo non è fatto solo di persone brutte e bruttissime, è fatto anche di persone belle e bellissime. Serve allenarci a vedere le une e le altre mantenendo il desiderio di star bene, conservando il diritto di star bene, il più possibile. Soprattutto in momenti difficili non possiamo cedere ad emozioni che ci procurano paura e rabbia. Se abbiamo un’associazione negativa lasciamola pure uscire ma subito dopo cerchiamone una positiva: esiste certamente. Dobbiamo convincerci che oltre ad aver subito ingiustizie siamo stati amati, siamo stati accarezzati, baciati, nutriti. In qualche misura e in qualche momento qualcuno lo ha fatto. Troviamoli quei momenti, con le catene associative. Nella difficoltà sono il nostro sole, sono la nostra vera forza.