UNA RAGIONE PER VIVERE: riflessioni da un sogno

<L’ho rifatto, se sono stata io l’ho rifatto anche stanotte.>

Sta parlando una giovane donna, che della teoria psicoanalitica conosce quasi tutto. L’ha studiata in università e l’ha approfondita per passione, finché un giorno ha deciso di mettersi alla prova e mi ha chiesto d’iniziare il percorso di psicoterapia psicoanalitica.
La mia impressione è stata che oggi, e con quella frase, prevalesse il bisogno di vincere un’inconscia sfida, rispetto al desiderio cosciente di ristrutturare la parte di personalità acquisita.
Era come se mi dicesse “vedi, la tua cura ha fallito, io col mio sintomo sono più forte di te”.
La sfida poteva sembrare originale, considerata in modo solo cognitivo, poiché riguardava la ragione stessa della sua vita, qualcosa a cui lei avrebbe dovuto tenere molto più di me.
Invece era in linea perfetta con il tomentoso conflitto di cui conosceva il sintomo psicofisico, ma non le ragioni che le avrebbero permesso di sconfiggerlo.
Mi chiedeva, in poche parole, di fornirle una ragione per vivere.
Se una richiesta di questa genere viene da una persona che sa discernere tra mondo reale e mondo fantasmatico siamo davanti ad una richiesta perfettamente in linea con l’obiettivo della psicoanalisi.
Se viceversa fosse la richiesta di una persona scarsamente o per niente capace di distinguere i confini tra i due mondi, allora il percorso psicoanalitico avrebbe scarse o nulle possibilità di successo.
Motivo?
Avremmo una persona che non sarebbe in grado di comprendere un pensiero logico quando il proprio stato emotivo fosse fortemente condizionato da una qualunque fantasia inconscia.
Ma gli esseri umani non appartengono a categorie così ben distinte come ogni psicoterapeuta vorrebbe.
Non c’è solo chi è nevrotico e chi è psicotico.
L’essere umano può viaggiare sul filo dell’equilibrio psichico per un certo periodo, per cause genetiche, o fisiologiche, per essere poi catapultato in qualsiasi altro momento e per tempi variabili, nella zona di confusione delirante per cause emotivamente traumatiche.

Data questa premessa, desidero trattare della distanza che c’è tra il fascino che suscita la teoria psicoanalitica di Freud e il risultato ottenibile dalla sua applicazione clinica.
Per farlo passerò attraverso l’interpretazione di un sogno, preso come esempio.

Dunque, il fascino mi pare indiscutibile, visto che resiste da più di un secolo a tutti i generi di attacchi, soprattutto dei troppo moralisti, e che moltiplica nel tempo consensi, ricerche e prove a sostegno, oltre a tentativi di imitazione e di appropriazione anche solo parziale.
Quanto ai risultati clinici, torno al mio esempio e passo la parola alla persona che ho davanti.
Mi sta descrivendo uno dei suoi sintomi, il più tenace di questo periodo: l’autolesionismo, ovvero una forma di rivolgimento aggressivo contro se stessa, un tipo di masochismo che non prevede un complice, una persona sadica fisicamente attiva.
Seguiamola.

<Mi sono svegliata con un dolore lancinante alle mani, sono scesa dal letto, ho aperto la finestra e ho rivisto le mie ferite. Soprattutto la destra, guardi, è ancora tutta lacerata come se avessi lottato con una pantera.
E’ stato come nel sogno della volta scorsa>.
(Riprendo il sogno, sistemando un po’ l’esposizione).
<L’ambiente è il giardino della vecchia casa dei miei,  che però è diventato una foresta, anzi una giungla piena di alberi e cespugli, tantissimi e  intrecciati tra loro.

I miei non ci sono e nemmeno io ci sono nel sogno.
C’è solo una bimba piccola, che gira tranquillamente come se fosse abituata a stare lì.
 A un certo punto si ferma per soccorrere un minuscolo scoiattolo ferito a una zampa. Ma fa appena in tempo a raccoglierlo che sente una voce tuonante, come un ruggito forte e prolungato. E’ una voce umana ma anche un ruggito spaventoso. Non è maschile e non è femminile: è animalesca.
Mi sveglio di soprassalto. Ho una specie di attacco di panico. Accendo la luce per guardare la stanza, come mi ha insegnato lei.
Il cuore mi batte fortissimo, ho paura, ho la gola secca e bevo un goccio d’acqua.
Resto a sedere sul letto per un po’ facendo la respirazione rilassante, finché mi vien sonno di nuovo.
Mi riaddormento e riprendo il sogno: vedo la stessa giungla di prima.
C’è una pantera enorme che si sta avventando sulla bimba piccola. La bimba scappa velocissima e si rifugia nel tronco vuoto di un grande albero insieme al suo minuscolo scoiattolo.
Ha tanta paura, però si fa coraggio tenendo il suo piccolo tra le braccia, sente il suo tremore in tutto il corpo e cerca di rassicurarlo stringendolo ancora più forte. Perde i sensi, poi per un attimo prova un piacere mai provato, un brivido, mentre lo accarezza, e per quell’attimo si confonde nel loro mondo irreale.
Ma la pantera è lì, riesce a portare nel loro rifugio quella zampa enorme e quegli artigli spaventosi. La bimba si ritira più che può, prova anche a combattere ma sente che non riuscirà a salvarsi.
Mi sveglio di nuovo, tutta sudata, con le braccia e le mani ferite e doloranti.>

E’ un sogno che non avevamo finito di chiarire e interpretare e che lei ora vorrebbe riprendere ripartendo dai pensieri avuti durante la settimana.
Sta cercando di capire perché dal suo inconscio sia partita la spinta a ferire il proprio corpo e a deturparlo proprio su quella parte.
Le braccia servono a collegare se stessi agli altri; oltre che a prendere o spostare oggetti sono il prolungamento più libero e più evidente del corpo.
Il sintomo
potrebbe simboleggiare il conflitto tra il bisogno di abbracciare e la rabbia di non essere corrisposta.
Piuttosto che ricevere la ferita affettiva del rifiuto, quella persona decide inconsciamente di provvedere da sola a ferirsi, mantenendo così un certo controllo della propria aggressività.
In modo spontaneo, lo fa sulla parte del suo corpo diventata la protagonista del conflitto: le braccia.
Naturalmente questa è solo una prima spiegazione possibile della formazione del sintomo.
Il sogno, con le relative associazioni, si spinge più in profondità, alla ricerca delle cause rimosse.
Infatti, mentre sappiamo che appartiene a tutti i cuccioli degli esseri umani il desiderio di ricevere ogni tipo di rassicurazione affettiva, come coccole, abbracci e baci, non  tutti hanno la sorpresa di ricevere in cambio qualche tipo di rifiuto. E non tutti i rifiuti sono della stessa specie.  A parte quello chiaro e netto di chi non vuole partecipare a scambi di affettuosità per effetto di sue inderogabili censure, c’è chi sta male, c’è chi sta fuori per lavoro e chi per divertimento, c’è chi ha appena litigato col partner e se la prende col figlio, c’è chi col partner vuol fare l’amore e trova impiccioso il figlio che pretende attenzione. Insomma, mentre il desiderio è universale anche se di grandezza variabile, il rifiuto può essere di tipi e durata molto diversi.
in altre parole: il desiderio è naturale, il rifiuto invece è acquisito.  

La paziente denuncia a questo punto un altro sintomo, meno evidente agli altri ma ben più serio per se stessa. E’ la conseguenza psichica del rifiuto ricevuto: un rifiuto reiterato nel tempo, come spesso accade nella prima formazione della personalità.

Seguiamo il suo racconto, che parte dal sogno e diventa ricordo, associazioni, pensieri.

<Sono sola dottore, le persone vicine paradossalmente mi fanno sentire ancora più sola.Alla fine che cosa ho fatto in tutti questi anni, se non seguire in automatico la strada che mio padre ha tracciato per me.
Magari sugli studi non era perfettamente d’accordo ma per il resto sono stata quello che ha voluto lui.
Solo che lui mi ha tradito nel modo più vigliacco. Ha disegnato la mia strada, mi ha raccomandato di percorrerla perché questo gli avrebbe fatto piacere, mi ha fatto capire che così sarei sempre stata amata da lui, poi un giorno se n’è andato per i fatti suoi.
Con un’altra.
E da quel giorno è stato come se io non esistessi.
La vecchia casa dei miei è un ricordo troppo lontano e tra me e loro c’è davvero una giungla quasi impenetrabile: sono immagini che s’intrecciano, sono emozioni  che si confondono, è la confusione della mia vita.
In quella giungla in verità non riesco a vedere niente di chiaro. Non ho niente davanti a me, niente intorno, il nulla assoluto. Io non ci sono e non so perché il mio corpo insista a vivere.>
Le ricordo che questo è solo l’inizio del sogno, cerco di caldeggiare il metodo in cui ogni regressione angosciosa è bene che sia seguita da un ritorno alla realtà. Ogni delusione sia superata da un proposito. Ma lei non mi ascolta, in questo momento non ha i piedi per terra. E prosegue.
<Mi sento vuota, spero che capisca.
E’ una sensazione come quando si beve troppo ma non si è ancora ubriachi del tutto; quando sembra che la terra si muova un po’ e le case intorno stiano per crollare ma non succede niente e tu resti sospesa. Poi ti accorgi che sei tu che crolli da qualche parte.>
Noto come smetta di parlare in prima persona e passi in automatico alla seconda persona, “tu”, come succede quando una certa emozione diventa troppo ingombrante e la si vuole passare all’interlocutore.
<A volte ho la testa che mi sembra che rimbombi, come se qualcuno mi desse dei pugni e mi ritornasse il suono del vuoto.
E’ una sensazione nuova, in questa misura, insomma non sono mai stata così piena di niente e mai stata così cosciente di esserlo.
Una volta ero arrivata a invidiare quelli che parlano sempre ma non parlano mai, che sputano parole senza ascoltarne il senso, che ridono mentre urlano condanne a casaccio, naturalmente contro chi non può difendersi.
Pensavo: “beati loro che sono scemi e non se ne accorgono”.
Perché guardi, la coscienza è una bella condanna, non un vantaggio.>
Ora sta uscendo troppo dal personale, rischia di rendere inutile, anzi pericoloso, il lavoro fatto sin qua.
Uscire dal racconto individuale per spaziare nel sociale è importante. Ma va fatto con equilibrio, cioè parlando in ugual misura di ciò che è buono e di ciò che è cattivo.
Chi ha ricevuto molto male tende a continuare, anche in modo ossessivo, a voltare lo sguardo verso chi è negativo, trovando così nutrimento per il proprio rancore.
Chi nutre il rancore deve star certo che quello crescerà dentro di sé.
Senza un limite definito, se non lo blocca.
Per fortuna il principio vale anche per l’amore.
°Silenzio
< Certe sere mi guardo allo specchio, faccio quell’esercizio che mi aveva insegnato lei, si ricorda? Beh, non vedo niente. Cioè il viso esiste, ci sono i muscoli, c’è il naso, c’è una forma, ci sono i capelli, tutto è al suo posto perfettamente, ma nessuna espressione, capisce, nessun movimento che cerchi di dire qualcosa: vedo una maschera neutra, perfettamente neutra.>
Davanti a quel vuoto si spaventa di nuovo e di nuovo devia dalla riflessione principale che dovrebbe portarla a costruire un cambiamento.
Torna al rancore generalizzato, quello che non potrà mai combattere da sola, quello da cui si sentirà  sovrastata ancora una volta.
Torna al rancore che cerca nuovi nemici per riprodursi senza fine.
Se continuasse così le rimarrebbero due sole strade di scarica: il rivolgimento dell’aggressività contro se stessa e la fuga.
Vediamo che cosa sceglie in questa seduta.
Dal punto di vista difensivo sarebbe meglio la fuga piuttosto della paranoia (l’dea nevrotico-psicotica di dover combattere contro un mondo pieno di nemici). Anche una semplice fuga nella fantasia, se solo durasse un po’ e rimanesse in termini abbastanza piacevoli.
Ma non pare sia così. Infatti riprende.
<Siamo in una nazione di merda, scusi il francesismo…voglio andare via, in Germania, in Svezia o più al caldo in un’isola dei Caraibi a fare la bella vita.
Lavorerò da remoto, sono capace di farlo>
< voglio trovare un mondo più giusto…sarò diversa se il mondo sarà migliore, lei non lo pensa?>
Rispondo: <può essere, anche se sono propenso a pensare che una persona porti sempre con sé quello che è stata e che è, finché non riesce a cambiare le parti che non le piacciono.>
Non mi sente, non torna su se stessa, continua ad attribuire solo agli altri la responsabilità dei propri mali, come se fosse ancora la bimba ingiustamente e crudelmente abbandonata. Insiste.
<A me non piacciono la maggior parte delle persone: sono egoiste, cattive e irriconoscenti.>
intervengo: <e sente di poter cambiare le persone?>
° Silenzio
<Non posso spararmi per farle contente>
°°Silenzio
Eccola arrivata ad un punto morto, si sente impotente davanti ad una fantasia così contraria alla morale.
Non resta che tornare al sogno.
Glielo dico, stavolta in modo più deciso: <torniamo al sogno, a quando si riaddormenta.>
Riprende il controllo.
<Vuole che faccia un’associazione sul fatto che mi riaddormento. Mi succedeva spesso da piccola. Era mio padre che mi accompagnava a letto la sera, finché c’è stato era lui che mi addormentava. Certe volte mi svegliavo dopo che era uscito e lo chiamavo. Tornava, mi dava un bacino e mi riaddormentavo. Era un bel gioco e non so se lo facevo apposta
Ma una sera non è tornato.
Da lì sono stati giorni difficili. La mamma era sempre a letto, adesso so che era depressa ma allora sapevo solo che dovevo lasciarla stare. Dovevo studiare e fare silenzio per non disturbarla.
Papà all’inizio veniva una volta ogni due domeniche, ma poi è andato lontano e l’ho rivisto dopo più di vent’anni. Il mio papà.”
Nell’interpretazione della prima parte del sogno avevamo già parlato del simbolo della pantera. Lei vi aveva visto l’oggetto delle sue angosce, questa situazione scura, dai contorni sconosciuti che incalzava pericolosa. Un futuro minaccioso, senza la protezione del padre e senza l’appoggio vivo di sua mamma. Ma nel riparlarne adesso rimuove le emozioni rivolte al papà.
< l’aggressività repressa che percepivo nella depressione di mia mamma, è così? Non potevo ribellarmi, dovevo star buona altrimenti la disturbavo. Dovevo reprimere anch’io la mia voglia di uscire da quella gabbia.
Si, ricordo bene che stringevo con tutta la mia forza le mie bambole, le sbattevo e le rompevo, strappavo i capelli, le smontavo. Ne ho avuta una di ceramica che ho ridotto in mille pezzi e non mi bastava. Ogni volta che mi arrabbiavo andavo apposta a romperne ancora un po’.
Mi sono ferita molte volte ma non mi facevo sentire, non mi lamentavo mai.
Era il mio sfogo silenzioso.>
Uno sfogo silenzioso che ha continuato ad attuare  anche da grande.
<era per non disturbarla>
Rifletto a voce alta: <sua mamma stava a letto in apparente silenzio, ma la disturbava fortemente con la propria depressione.  Non lo faceva apposta, certamente, questo non lo vogliamo pensare, ma di fatto lei viveva tra due silenzi che non voleva. Due incubi. Due silenzi che la tormentavano. Uno era il silenzio di chi l’aveva abbandonata, di chi non c’era più con lei, e uno di chi c’era rimasta per forza ma non avrebbe voluto esserci. Mi chiedo perché rimuova il primo e giustifichi il secondo ancora oggi.>
<Non posso certo ammazzarla>
Di nuovo non nomina il padre e io non insisto per ora.
Siamo al chiarimento
<questa espressione l’ha usata anche a proposito delle persone che vivono intorno a lei. Sta dicendo che non può essere violenta con sua mamma e preferisce esserlo con se stessa>
<Piuttosto che con lei, si. Non dimentichi che fino agli 8 anni ho avuto mio papà e mia mamma con me. Mio papà di più, ma c’era anche la mamma.
E c’è un’altra cosa, quando mi ferisco io so di esistere.>
<cioè, riempie il suo troppo doloroso vuoto facendosi un male minore>
<E’ meglio questo piuttosto che essere inghiottita dal vuoto Da quando papà è andato via per me non c’è più e io ho imparato a sopravvivere nel dolore, quella è la vita che riconosco. Tocca a lei, grande psicoanalista, a darmi un motivo per vivere>.
La sfida adesso è tanto sprezzante quanto chiara.
Sprezzante nel sarcasmo e paradossale nella richiesta. Se il motivo per vivere glielo dessi io, semmai questo fosse possibile, lei non sarebbe l’artefice della sua vita dunque io non le avrei dato quello che voleva. Io posso solo aiutarla a trovare il suo motivo per vivere, purché lei accetti davvero la situazione reale.
La realtà che a tratti non accetta, e a volte si arrabbia se gliela mostro, è composta da quattro elementi:
°la sua vita è partita con un handicap perché la natura e i genitori non sono perfetti;
°°lei adesso è adulta, perché ha lottato e i genitori bene o male qualcosa hanno fatto per lei;
°°°deve cercare in se stessa la forza per riaggiustarla, per non cadere nelle due alternative nevrotico-psicotiche di cui abbiamo parlato (rivolgimento del rancore contro se stessa o fuga);
°°°°infine che ogni percorso psicoterapeutico, e questo in particolare, si basa sul transfert e più di tanto non lo può distruggere.

Rifletto
Il sogno è partito dalla scena in cui lo spazio tre se stessa, bimba, e i suoi era impossibile da percorrere (la giungla).
Se quella stessa sensazione fosse ancora attuale il transfert risulterebbe molto difficile se non impossibile.
Ma il transfert è l’elemento affettivo che lega  la paziente all’analista e che permette di risanare le ferite della psiche, dunque è indispensabile che esista come legame di possibile nuova fiducia.
In quel momento del sogno la dichiarazione più terribile, sempre per la bimba, è stata: “loro non ci sono, e nemmeno io ci sono”. Due elementi che il suo rancore dovrebbe separare, nelle sue intenzioni, ma che restano profondamente collegati proprio dallo stesso rancore.
Il ricordo di quel periodo porta alla conclusione impotente di non esistere.
Se i genitori non s’interessano a lei quando lei dipende da loro, lei sente di non esistere.
Per sua fortuna c’erano stati nel primissimo periodo della sua formazione. E’ questo che le ha permesso di prendersi cura di se stessa, almeno un po’, limitando le crisi a momenti abbastanza circoscritti.
Prendersi cura di se stessa è qualcosa che ha già fatto, anche se da piccola e con l’aiuto dei genitori.
Sono passati anni in cui quell’aiuto non c’è più stato. Anni in cui le sue resistenze l’hanno pian piano logorata, perché i conflitti, stancano, logorano e deludono.
Ma nella sua memoria inconscia ci sono anche frammenti di forza che ha già usato e sa quindi come usare.
Adesso, dopo un po’ di analisi, sa che per esistere deve riprendere in mano la sua vita: deve ricordarsi di tutti gli ostacoli che ha superato e di come ha fatto; deve togliere le ragnatele della rimozione ai momenti più teneri che ha vissuto e capire che li può ancora trovare; deve ricorrere alla sua creatività e chiederle di restare con lei ogni giorno.
Sono doveri che nessuna persona esterna può imporle, dipenderanno solo dalle sue decisioni.
Se i momenti belli fossero stati pochi è importante che li  ingigantisca nella mente e ne esalti la forza emotiva per desiderare fortemente di riaverli.
Lei finora ha scelto, per la maggior parte della vita, di esistere tramite il rancore, cioè di esistere desiderando di non esistere: un paradosso insostenibile.
E’ davvero cosciente di questo?
No, lo sarà solo mentre agirà il suo cambiamento perché il pensiero cosciente non è ancora l’autorizzazione all’atto, è un pensiero appunto, è importantissimo perché stabilisce che quella è una persona e che sa ragionare senza perdersi nella confusione.
Ma non è ancora l’azione, è solo una specie d’introduzione, che la psicoanalisi rende più facile, più profonda, anzi indispensabile per passare all’azione.

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