Ribellione e libertà
Via Roma è lunga, larga, piena di negozi e di gente. Ha il pavimento di grandi lastroni di pietra e due spaziosi marciapiedi su cui si può fare la corsa anche in due. E’ la strada più importante. C’è la chiesa, quasi nel mezzo, e ci sono dei bei palazzi antichi che si affacciano ai lati, dandole quel fascino austero che si addice al suo nome.
Via Roma l’avrei descritta così, quando portavo i pantaloncini corti e la potevo percorrere solo in parte: più o meno dalla pasticceria prima della chiesa a quella prima della via dei Cappuccini.
In mezzo c’era un negozietto piccolo piccolo e strano, che vendeva di tutto, e lì c’era una bambina bellissima, che mi faceva sognare. Era morettina con gli occhi azzurri. A dire il vero non ricordo fino a quando l’ho vista: un giorno non c’era più e io ho continuato a portarla nel cuore per diversi anni.
In fondo per me non era cambiato molto: un sogno era prima e un sogno era dopo.
Adesso riesco ad essere freddo all’idea, riesco a spiegarmela come se nulla fosse, ma allora ricordo la delusione, la tristezza e le molte lacrime: tutte piante di nascosto, nel segreto più buio e più stretto.
Allora ero più emozioni che corpo, più fantasie che pensieri. Finché i miei occhi non persero l’esclusiva del contatto e il corpo non iniziò a darmi piaceri ben più forti, ne rimasi intrappolato.
Andavo su e giù per quella strada ogni volta che potevo, la cercavo pensando che non mi vedesse ma speravo di trovarla: che caos tra fantasie, emozioni, sentimenti e pulsioni.
Se ci penso adesso, non mi sono accorto di crescere per anni.
L’ultimo tratto di via Roma era tabù.
C’era una sezione del Pci, con relativo circolo Italia Russia; c’era la Camera del lavoro e infine un bar “diabolico in cui un bimbo di buoni principi non doveva assolutamente entrare.”
Questo mi avevano insegnato.
Infatti io ci andai, ma solo qualche volta, giusto per non essere troppo ubbidiente e per sentirmi un uomo che può sfidare il mondo, però ne fui decisamente deluso.
Ero figlio della mia famiglia più di quanto non ammettessi a me stesso e dovette passare molto tempo prima di potermi sentire libero.
Quando i calzoni iniziavano a diventare lunghi credetti anch’io che la ribellione fosse l’inizio della libertà.
Ora so che è la prosecuzione del legame più profondo, ma vaglielo a spiegare a un adolescente.
C’era bisogno che macerassi come un seme nel terreno, che vedessi il terremoto prima di ricostruirmi.
Quando iniziai a chiedermi perché il mondo fosse fatto così, così male, e come avrei potuto cambiarne almeno un pezzetto, quel bar diabolico mi piacque ancora meno, le sezioni politiche mi diventarono indifferenti, anche se avrei dato la vita per un po’ di giustizia sociale.
Qualche anno ancora e iniziava a non piacermi più nemmeno Via Roma. Era diventata stretta, tutto sommato anche corta, bruttina, grigia, con sempre la stessa gente radunata sul piccolo piazzale della chiesa, con quei pochi palazzi, vecchi e tetri, che a un certo punto cercavo di evitare.
Ed ora che mi sembra di aver girato tanto, ora che ho visto tanti volti, tante esperienze, che ho conosciuto mille e mille sentimenti nelle situazioni più disparate, ora che vivo in una città un po’ vera, quel piccolo mondo mi pare un modellino abbandonato.
Guardo distrattamente la persona che ho davanti:
“buongiorno dottore, forse si ricorda di me, sono stata un’allieva di suo padre”
Le allieve di mio padre non credo di averle mai conosciute, a parte qualcuna passata per caso nella mia stessa età e dalle parti di casa mia. Sorrido di cortesia e le faccio segno di accomodarsi senza tentare di trovarle una nicchia tra i ricordi di famiglia.
E’ una signora dal portamento stanco, triste ma non depressa.
Quel corpo non porta con sé la rabbia sorda della depressione, tanto difficile da affrontare, piuttosto sembra sforzarsi di sostenere qualcosa di pesante che ha dentro da chissà quanti anni: qualcosa che le pesa ma che non odia.
E’ quasi dolce nella sua fatica, e quasi mi attira.
Mentre si siede io le do le spalle per prendere un quaderno. Poi mi volto e inizio il colloquio.
Non ci credo.
E’ cambiata tantissimo. I capelli sono bianchi e il viso sembra di un’altra persona: smagrito oltre il vero, pallido, quasi senza energia. Ma quegli occhi azzurri hanno sfidato il tempo e l’hanno clamorosamente battuto. Il corpo è provato, gli occhi, al contrario, sono vivi come il mare.
Resto impietrito, con la penna che sfiora la prima pagina e il cuore che impazzisce come un puledro selvaggio alla prima sella.
“Vedo che mi hai riconosciuta, scusa se ho trovato questo modo invadente per rivederti, Alfredino. Volevo dirtelo, sai prima di…insomma mi manca poco. Ma ti prego niente lacrime. Ora che non ho più pudori te lo posso dire. Mi piacevi, ti ho sempre portato nel cuore anche dopo che i miei hanno traslocato. E tu?”
Ma non mi lascia parlare, come se temesse la risposta.
“Peccato che non ti abbia più trovato fino a pochi giorni fa. Ho letto per caso un tuo blog, sai, cercavo qualcuno che mi accompagnasse nell’ultimo viaggio e ho ritrovato te. Ssss, non dir niente. Lo considero un regalo della vita, l’ultimo.”
D’improvviso via Roma è tornata bella, larga e piena di gente. Con la chiesa nel mezzo e quel negozietto piccolo e strano con una bimba che mi faceva impazzire.
Mentre stringo le sue mani così fragili, tra le mie, e mi tuffo nei suoi occhi, per la prima volta vicini ai miei, ho voglia di andarmene con lei.
Libero dal mio corpo.
Lo capisce, si alza a fatica, tenendomi ancora un po’ le mani, mentre si avvicina alla porta:
“non sai che regalo mi hai fatto a riconoscermi. Resta qua, tu, che sei ancora utile a tanta gente, dottore.”
Un bacio più leggero di una piuma ed è scivolata fuori come un soffio.
O come un’ombra nella nebbia.
alfredo rapaggi