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Romans de couple
Un accordo crudele
Jo-Fi: un transfert tra Freud e la Principessa Bonaparte
L’influenza della famiglia nello sviluppo della personalità
PSICOPOLITICA: il narcisismo del potere

Romanzi di coppia       bologna 3-7-14

Esce oggi la traduzione in francese del libro che affronta in modo attuale ed eclettico il tema della psicoanalisi della coppia.
Firmato da Alfredo Rapaggi, il libro è posto all’attenzione critica degli psicoanalisti che parteciperanno al congresso internazionale di psicoanalisi della famiglia e della copia che si terrà a Bordeax dal 28 luglio al 1° agosto p.v.

“La coppia è un universo psico-affettivo che discende da due coppie precedenti. Non è  una definizione perfetta perché non considera l’importanza della tendenza naturale di ciascuno dei due partner”, ma rende l’idea di quanti sentimenti e di quanti conflitti possano accompagnare la relazione di coppia.
Da Freud ai giorni nostri si sono fatti passi avanti nella pratica psicoanalitica ma c’è ancora tanto da fare. Per esempio ci sono da esplorare modalità attive che coinvolgono anche il corpo reale, le relazioni vere, molto diverse da quelle immaginarie e simboliche su cui si basa il setting psicoanalitico classico.
Tenendo sempre in primo piano l’obiettivo psicoterapeutico, si può usare la prudenza che serve quando l’equilibrio del paziente è precario senza ricorrere necessariamente a quel tipo di censure che spesso ne hanno caratterizzato l’infanzia. Rappresentare il padre e la madre non vuol dire avere il loro atteggiamento, le loro paure, le loro difese, anzi. Anzi, il paziente che ha dovuto convivere con queste privazioni vorrebbe essere risarcito. E’ vero che si trova in un conflitto tra la voglia di avere l’amore e il contatto che gli sono mancati e la rabbia per non averli avuti. E’ vero che spesso, per coazione a ripetere, respinge proprio ciò che desidera più di ogni altra cosa. E’ vero che respinge più con moti automatici, di cui non è consapevole, che con gesti coscienti.  E’ tutto vero, ma a questo punto è la preparazione, è la serenità è il coraggio, infine è la duttilità dell’analista che fanno la differenza e riescono a rompere le corazze nevrotiche del paziente per restituirlo alla sua naturale personalità.

Jo-Fi: un transfert tra Freud e la Principessa Bonaparte

 Nel percorso psicoterapeutico ideato da Sigmund Freud il transfert è un punto centrale: rappresenta il rapporto tra paziente e analista. Il transfert ripropone il rapporto con le figure parentali che hanno formato o distorto la personalità. Rispetto a queste però ha due vantaggi. Il primo è quello di esistere quando il/la paziente è già nella fase adulta, con gli strumenti psichici e mentali necessari a comprendere il passato e a correggere il presente, con l’aiuto dell’analista. Il secondo è di poter interiorizzare una figura ideale non giudicante e non castrante da contrapporre a quelle interiorizzate nell’infanzia.

chow-chow

chow-chow

A volte però anche il transfert può essere così forte che per continuare ad esistere ha bisogno di elementi simbolici che lo rappresentino non direttamente, che mandino il segnale emotivo senza riferimenti verbali o gestuali palesi. Elementi che però possano essere portati alla coscienza al momento opportuno, poi interpretati ed elaborati.

L’esempio a cui mi riferisco è quello di Jo.Fi, la cagnolina a cui Freud si era talmente affezionato da tenerla vicina, accucciata sotto la sua poltroncina durante le sedute psicoanalitiche dell’ultimo suo periodo viennese. Era lei che lo avvertiva della fine delle sedute e pare che fosse puntuale come un orologio.

Jo-Fi era di razza Chow Chow, una razza molto antica di origine cinese, appena riconosciuta in Inghilterra e assunta al ruolo di razza regale quando la principessa Marie Bonaparte ne fece grazioso omaggio al suo analista Freud. Come se questo messaggio non fosse stato abbastanza chiaro c’era un dettaglio importante: Marie tenne per sé un’altra cagnolina nata nella stessa cucciolata, cioè con gli stessi genitori. Dunque paziente e analista avevano in comune due sorelline. Se una coppia di persone accudisce due sorelline se ne può dedurre che quella sia una coppia di tipo genitoriale, quindi, almeno simbolicamente, l’uomo Sigmund e la donna Marie erano “marito e moglie” secondo la cultura dell’epoca e la simbologia del gesto.

Quel raffinato “passaggio all’atto” aveva siglato il simbolico e immaginario contratto.

Suppongo che Freud abbia interpretato ripetutamente questa mossa di Marie, ma quello che mi piace di più è che l’abbia accettata.

Credo che le rigide regole dell’ortodossia psicoanalitica attuale non lo permetterebbero, ma si sa che gli allievi sono spesso meno creativi dei maestri (spesso e non sempre). Soprattutto quelli che inventano le regole che gli altri dovrebbero poi rispettare non mi danno molta fiducia, ma torniamo a Marie.

Marie_Bonaparte_filmant_Sigmund_Freud-

Marie_Bonaparte_filmant_Sigmund_Freud

Il suo rapporto con Freud ha altri dettagli che escono dalle regole attuali messe a tutela della cura psicoanalitica: è stata amica sua e di sua figlia Anna, sua collaboratrice, sua traduttrice, sua seguace.

Ce ne sarebbe abbastanza per annullare ogni regola e chiedere agli psicoanalisti di usare semplicemente il buon senso e la loro competenza per decidere come e quando ricorrere a certe difese a tutela del paziente.

Soprattutto a difesa del paziente, visto che è la persona più debole e che si mette con fiducia nelle nostre mani.

E questa è “la regola” che rispetto più volentieri, in totale accordo con l’illustre psicoanalista della principessa Marie Bonaparte.

 

 

 

UN  ACCORDO CRUDELE

Alfredo Rapaggi

Prima di cominciare una serie di riflessioni psicoanalitiche che partiranno dalla descrizione delle sedute da me fatte in questi anni, ho deciso di presentare il caso di una coppia che non è mai entrata nel mio studio di psicoanalisi.
Nello spirito di chi utilizza abitualmente lo psicodramma, oltre al setting individuale,   lo presenterò osservando la scena con gli occhi di uno spettatore, in questo caso un casuale passante notturno, che guarda, partecipa emotivamente ma non può intervenire a correggere  la relazione, uno come la maggior parte delle persone che tutti i giorni vivono avendo dentro di sé l’immagine e i sentimenti dell’essere in coppia.
Nel leggere il racconto spero che ognuno lo viva come l’ho vissuto io, o come lo vivrebbe uno del pubblico dello psicodramma. Un testimone che può osservare la messa in scena di un dramma che non gli appartiene direttamente, ma di cui forse conosce bene almeno una parte e la può condividere

La scena si svolge quasi sotto le mie finestre, ogni venerdì intorno a mezzanotte con la puntualità di uno spettacolo teatrale e, proprio come in un vero teatro, è preceduta dal tintinnio di un campanello, che col tempo ho riconosciuto essere quello della bicicletta della ragazza.

 

Adesso mi è impossibile non riconoscerla.
La strada è tranquilla fino a quel momento: si possono ascoltare le frasi delle rare persone che passano nella via accanto e qualche vocio sommesso, nella piazzetta.
Finché non arriva il suo turno e tutto cambia.
E’ un giovane uomo quello che urla da lontano e avanza pian piano, gettando nel vuoto un galoppare di suoni gutturali e spezzati che prendono via via lo spazio tutt’attorno, come il susseguirsi di tuoni che da sordi si fanno sempre più minacciosi. Urla con voce profonda, disperata e roca; una voce che pare partire dalle viscere della terra attraverso un tubo contorto e semi intasato da pezzi di tamburo, per arrivare a sbalzi tra le nuvole nere che cerca di creare intorno a sé.
Si trascina lungo i portici fino alla piazzetta, che a quell’ora è quasi deserta. I pochi ragazzi che si sono fermati sul muretto del monumento a Galvani l’accolgono con l’indifferenza tipica di chi ben conosce le stranezze della notte. Qualcuno alza la bottiglia di birra, in segno di auguri e alleanza, ma subito se ne dimentica.
Lui, il nostro protagonista, non vede altro che il suo cammino  e non sente che la sua voce. Ripete sempre le stesse parole, ogni volta con la medesima rabbia e lo stesso dolore, parole quasi incomprensibili, falsate dalla tortuosità del percorso che devono fare dalla psiche alla gola, evitando in automatico le strade del pensiero. Parole sempre uguali nella forza e nel tono, cadenzate ad intervalli regolari, come gestite da un occulto regista: le ripete mordendo l’aria con la stessa furia della volta precedente, come se non fosse passato un solo minuto in tutta la settimana appena vissuta, o in tutta la vita. Parole che si trasformano, nel lungo viaggio interiore, in grugniti minacciosi, suoni duri, paurosi e ringhianti come quelli di un cane terrorizzato di fronte al suo nemico; suoni interrotti da tentativi di parole falsate dalla rabbia, appena comprensibili perché offese antiche come l’uomo:

 

Troooooia!”; simil parole intrise d’irose ripetute minacce defecanti disprezzo: “tiii aaammazzoo! ‘llledeeetta,  cccagona sschiifooosaa” e da irripetibili e fantasiose bestemmie a tutti gli dei di tutti i popoli.
E’ così che lo si sente arrivare da lontano, forse da Piazza Grande, lungo tutto il portico del Pavaglione, che pare messo lì apposta come un’enorme cassa di risonanza. Si perde allo stesso modo, diverso tempo dopo, degradando e trasformandosi nel silenzio di una stradina secondaria, tra gli ultimi scooter parcheggiati alla rinfusa, in una confusione di suoni che pian piano, passo dopo passo, si trasforma, come se si srotolasse sull’asfalto il pesante nastro della sua vita.
Mutano quei suoni rabbiosi e imprecanti, e diventano lentamente una lunga preghiera: la seduzione di chi pare tormentato dal senso di colpa, ma soprattutto dall’angoscia di perdere il suo unico appiglio. La rabbia dell’inizio diventa paura, tremante terrore, e la sua voce si fa più incerta, finché quei suoni, prima così duri e sprezzanti, divengono fragili lamenti, e poi singhiozzi, e poi ancora preghiere:
“Ti prego torna indietro, ti prego! Aiuto, ho bisogno di te!”
Lei si ferma e l’uomo puntualmente inizia a lagnarsi:
“Sto male, molto male, davvero! Non so dove sono, aiuto!”

 

Continua, chiamandola con parole sfilacciate e pregandola di non abbandonarlo.
“Non andar via, per favore. Resta ti prego!”
Insiste a supplicarla con voce piangente, rotta, a tratti flebile e a tratti disperata, che pare impossibile essere la stessa con cui l’aveva brutalmente minacciata qualche istante prima.
Si appoggia alla bici come se non avesse la forza di reggersi da solo e allunga la mano sognando forse il miracolo d’incontrare quella di lei. Eccolo, ora è trasformato in un bimbo sperduto, e spaventato, e bugiardo. Giura e promette che cambierà, che farà tutto quello che lei vorrà, che lei deve credergli, che le vuole tanto bene, che è soltanto lei la donna che desidera, che è bellissima, la più bella del mondo, che non deve abbandonarlo, che se lo facesse lui si ucciderebbe.
La supplica con una voce che ormai, persa tutta la rabbia precedente, è diventata sottile e tenera, molto più fragile e molto più “bianca”  di quella di qualsiasi maschio adulto. Un filo di voce che si insinua, senza trovare ostacoli, verso il cuore della donna che lo aspetta.
L’esagerata violenza di prima diventa un’eccessiva e pietosa valanga di propositi improbabili: un rosario che ha imparato a memoria e che recita come un antico copione, continuando a camminare dietro di lei, sempre alla stessa distanza, con lo stesso ritmo, implorandola fino all’esaurimento.
Infine prende fiato, e io lo sento ansimare quando ha appena superato le mie finestre; si ferma qualche istante e aspetta che anche lei si blocchi. Restano così, badando a non modificare quella distanza di sicurezza che il tempo e l’esperienza hanno fissato in una decina di metri.
Sembra tutto finito in quel nuovo silenzio. Ma è solo la fine del 1° atto: cala il sipario che da lì a poco si alzerà di nuovo e il dramma proseguirà proprio come prima. Eccolo, infatti, che riprende a camminare, esattamente come aveva incominciato: con una nuova rabbia, con gli insulti, le urla, i suoni rabbiosi, le minacce e infine le suppliche.

Lei lo precede, alternando il ruolo di protagonista a quello di “spalla” o meglio, come si direbbe nello psicodramma, di “Io-Ausiliario”. E’ sempre più discreta fino a sembrare assente, ma si capisce presto che il suo ruolo è indispensabile, determinante.

Mentre l’uomo minaccia e supplica, lei pare un’ombra, rassicurante e fedele: cammina in silenzio, limitandosi a suonare il campanello della sua bicicletta a intervalli regolari, come un direttore d’orchestra che scandisce il ritmo di un brano musicale.

 

L’influenza della famiglia nello sviluppo della personalità

Veronica Borgonovi

 Introduzione

“Tree of life – L’albero della vita” parla di una  famiglia, una madre, un padre e tre figli. Lo sviluppo del senso di Sé, lo sviluppo della propria personalità attraverso il faticoso processo di integrazione fra le spinte pulsionali e le rigidità dell’istanza superegoica, così come avviene – secondo la concezione topica di Freud, nell’evoluzione dell’Io – dal punto di vista intrapsichico – come anche in seno ad una famiglia – dal punto di vista intersoggettivo.

Allo sviluppo dell’Io contribuiscono sia fattori naturali, sia fattori maturativi, sia fattori esperienziali.
In questo articolo non mi occuperò dei fattori legati alla tendenza naturale ma solo degli altri due

Alcune funzioni basilari nel bambino piccolo, come la capacità di stare seduti, diritti, camminare dipendono molto poco dall’apprendimento nel senso usuale e tuttavia la loro comparsa è legata in larga misura allo stimolo fisico ed emotivo che una madre normalmente affettuosa e matura dà automaticamente al proprio figlio tenendolo in braccio, accarezzandolo, nutrendolo e prendendosi cura di lui.

I bambini che sono privi di questo nutrimento affettivo e non vengono stimolati emotivamente non si sviluppano in modo ottimale, per quanto possano essere curati dal punto di vista della nutrizione fisica.

Anche lo sviluppo delle funzioni intellettuali superiori quali la capacità di ricordare, di prestare attenzione a cose o persone specifiche, o quella di posticipare i bisogni e desideri dipende dalla sicurezza che il bambino sperimenta nel rapporto con la madre.

Se è in grado di ricostruire nella sua memoria una rappresentazione della madre come di una persona di cui ci si può fidare perché è presente e può soddisfare i bisogni, il bambino riesce a sviluppare in modo autonomo il controllo sul proprio corpo e sulle proprie emozioni.

La costanza dell’oggetto non emerge prima dei 18 mesi.

In questa fase quando la madre è lontana – anche se solo dal campo visivo o uditivo del bambino– il bambino non ha alcuna certezza che lei continui ad esistere.

Soltanto lo sviluppo di un’immagine mentale interiorizzata della madre lo conforta quando lei è assente e lo rassicura  circa la sua esistenza.

Se non riesce gradatamente a sviluppare dentro di sé questa immagine di madre affidabile, praticamente tutte le funzioni dell’Io ne soffrono.

Se non può disporre di sufficienti esperienze per costruire questa fonte interna di sicurezza e fiducia si avranno dapprima distorsioni nella capacità di camminare, parlare, apprendere, pensare, ricordare e nella fiducia in se stesso e nelle altre persone,  una scarsa capacità di tollerare la frustrazione, un  controllo sugli impulsi e i sentimenti incerto e difficoltà nel formare rapporti affettuosi, fiduciosi e di reciproca disponibilità.

Nel secondo anno di vita, l’ambiente sociale del bambino si amplia ed arriva a comprendere le altre persone della famiglia, come il padre, i nonni, i fratelli che diventano delle ulteriori fonti di conforto, sicurezza e che forniscono al bambino altri modelli di comportamento. L’Io del bambino si adopera per integrare i dati percettivi provenienti dall’ambiente che lo circonda con i dati che derivano dai suoi impulsi, sentimenti e desideri interni, così da sviluppare via via una buona  capacità predittiva del comportamento altrui attraverso una sempre più articolata serie di  rappresentazioni mentali che vengono interiorizzate anche attraverso processi identificatori con le figure di riferimento.

Come per lo sviluppo dell’Io, anche il Super-Io si struttura nella dialettica fra componenti pulsionali del bambino e richieste ambientali.

Se l’atmosfera familiare è calda, accogliente e le regole sono date in maniera ferma e al tempo stesso moderata, il bambino tenderà a sviluppare una coscienza morale ragionevole.

In un’ atmosfera familiare punitiva e severa, il bambino svilupperà una coscienza morale implacabile e perfezionista.

Il clima affettivo, l’atmosfera, il sistema educativo, la qualità del rapporto fra i coniugi e il rapporto che questi hanno avuto a loro volta con i propri genitori e le fantasie inconsce che ogni membro della famiglia ha nei confronti degli altri componenti costituiscono la matrice familiare.

La matrice familiare è l’elemento che identifica la famiglia, è il senso d’Identità che il gruppo famiglia condivide e che trasmette ai suoi componenti, attraverso la relazione.

La matrice familiare

 Nel 1909 Freud scrisse un articolo “Il romanzo familiare dei nevrotici”. E’ la storia che s’inventano alcuni adolescenti per attribuirsi  genitori dall’origine prestigiosa, mettendo in scena una concezione infantile – idealizzata – dei loro genitori.

Un processo difensivo che permette, attraverso la creazione fantasticata di una nuova genealogia, di:

1) attuare una compensazione narcisistica,

2) di eliminare dalla propria famiglia gli indesiderati

3) di giustificare una scelta d’oggetto spogliandola del suo carattere incestuoso.

E’ quanto accade anche durante l’attività onirica; attraverso il sogno le tensioni dolorose scaturite dale impressioni sensoriali del materiale diurno vengono elaborate e immagazzinate oppure evacuate ed allontanate dal Sé e i desideri appagati

“quando nei sogni compaiono l’imperatore o l’imperatrice, queste illustri personalità rappresentano il padre e la madre e, conclude Freud, la sopravvalutazione bambinesca dei genitori è quindi mantenuta anche nel sogno dell’adulto normale”.

E quando la dimensione del sogno sconfina? Lo scenario famigliare muta quando il romanzo famigliare viene agito nella realtà come fosse vero; una sorta di “follia a due” può installarsi quando – per esempio – il romanzo familiare del bambino entra in risonanza con quello del genitore.

I confini diventano labili, la confusione fra ruoli, fra fantasie e realtà fa deragliare l’andamento del legame famigliare verso un funzionamento che si allontana da quello sano o nevrotico per spingersi sempre più vicino a quello psicotico, dove prevalgono l’identificazione proiettiva, la collusione e il distanziamento dalla realtà (famiglie dove vige l’idea paranoica di essere soli uniti contro il mondo).

Berenstein  a questo proposito parla di “il paziente vincolare”, indicando che è il legame stesso ad essere patologico.

La costruzione dell’identità attraverso il legame.

Cosa s’intende per legame?

Nel quadro della teoria delle relazioni oggettuali il termine legame è stato spesso utilizzato – in maniera intercambiabile – come sinonimo di relazione e di relazione con l’oggetto.

Neanche Bion e Winnicott distinguono chiaramente fra legame e relazione oggettuale: a volte nelle loro opere ci sono riferimenti al legame come sinonimo di relazione e viceversa.

Winnicott, ad esempio, utilizza il termine oggetto soggettivo per descrivere un legame primario fra madre e bambino, in cui l’altro non è ancora riconosciuto come altro da Sé e su cui ancora non può proiettare i propri oggetti interni dal momento che il mondo interno con i propri oggetti ancora non si è costituito.

Secondo Bion, il legame nasce in primis come legame mentale, da intendersi come una funzione emotiva che facilita l’integrazione delle esperienze, lo sviluppo delle funzioni mentali e la conoscenza, sottolineando così l’importanza che i legami hanno nello sviluppo delle funzioni dell’Io.

La qualità del legame determina la forza dell’Io, la capacità di partecipare nella relazione ad un investimento nei confronti di un oggetto interno riconosciuto come separato da Sé.

Bion definisce questo tipo di relazione “relazione commensale”, distinguendola dalle relazioni simbiotiche e parassitiche nelle quali non vi può essere un investimento pulsionale di un oggetto, poiché il Sé e l’oggetto non sono pienamente differenziati come entità separate.

In queste relazioni affettive prevale l’uso dell’identificazione proiettiva, attraverso la quale spostare la rappresentazione di un oggetto interno su un oggetto esterno, di cui viene negata la realtà psichica esistenziale.

Così, mentre nella relazione commensale il legame, che riattiva una relazione oggettuale nella quale il Sé riconosce l’oggetto come Altro, differenziato e separato da Sé, produce un nuovo soggetto che riconosce il luogo dell’altro e la sua differenza con l’oggetto interno e si lascia mutare nella dialettica della relazione – nella relazione simbiotica e parassitica il legame è una difesa rispetto alle angosce di frammentazione, di perdita legate all’indifferenziazione del Sé e alla percezione distorta dell’altro come estraneo, alieno perché non accettato nella sua alterità.

Kahn (1979) parla di un Io deformato, cristallizzato nella precoce identificazione mentale con la madre e prigioniero di un legame primitivo e autoerotico con lei e fa risalire tale deformazione dell’Io all’incapacità della madre, durante il periodo dello svezzamento, di somministrare “dosi di esperienza di vita” che siano adeguate alla fase di sviluppo del bambino.

Ne consegue che si sviluppa una dissociazione per cui lo sviluppo dell’Io e lo sviluppo istintuale  si muovono in parallelo senza integrarsi.

L’altra persona – spogliata della propria soggettività – è cercata, prevalentemente, allo scopo di integrare gli stati dissociati del Sè.

Prendiamo ad esempio l’ambito della sessualità: nelle attività erotiche con il partner, L’Io dissociato da una parte si difenderà negando la separazione e l’alterità dell’altro e dall’altra, attraverso l’investimento libidico-pulsionale, cercherà nell’intimità fisica con il partner di ripristinare l’antica fusione con l’oggetto.

Anche Pichon-Riviere (1970), sviluppando la teoria del vincolo, inscrive i processi di formazione del soggetto nella cornice dell’intersoggettività e afferma che non esiste psichismo al di fuori del legame con l’altro.

“Il legame è una struttura complessa che include il soggetto, l’oggetto e la loro mutua interazione attraverso processi di comunicazione e apprendimento, in una cornice intersoggettiva, nella quale il soggetto è al tempo stesso soggetto e prodotto della relazione.”

Torniamo al concetto di intersoggettività

Nell’interazione ciò che in origine è intersoggettivo diviene poi intrapsichico.
Un po’ di storia

La psicoanalisi è scienza dell’intrapsichico quanto dell’intersoggettivo.

Freud fa risalire la pulsione sociale e le “origini della sua formazione a un cerchio piuttosto ristretto,
come quello della famiglia”. Dal punto di vista clinico, il caso de “Il piccolo Hans” ci mostra una sorta di intervento sulla famiglia “ante litteram”

All’interno della matrice familiare, Hans aveva sviluppato una fobia che aveva l’obiettivo, secondo Freud, di richiamare l’attenzione dei genitori e far accorrere il padre in suo aiuto.

Non è un caso che la cura del bambino sia avvenuta  proprio attraverso il lavoro che Freud effettuò sul padre.

Sul piano teorico, attraverso la teoria delle identificazioni, Freud fu tra i primi a porre la problematica dell’intersoggettività nello scritto “Psicologia delle masse e analisi dell’Io”

 “Nella vita psichica del singolo, l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come soccorritore, come nemico, e pertanto, in questa accezione più ampia, la psicologia individuale è allo stesso tempo e fin dall’inizio psicologia sociale.

Il rapporto che il singolo istituisce con i suoi genitori e fratelli, con il suo oggetto d’amore, con il suo maestro e con il suo medico, ossia tutte le relazioni finora divenute materia della ricerca psicoanalitica, possono legittimamente venir considerate come fenomeni sociali” (Freud, 1921)

 Con Melanie Klein e Anna Freud la psicoanalisi del bambino e della relazione madre-bambino cresce e le scoperte relative al funzionamento intrapsichico e interpsichico infantile confluiscono in teorie che costituiscono degli importanti punti di riferimento a cui il successivo sviluppo sulla psicoanalisi della famiglia continuerà ad attingere.

Alla Klein si deve la scoperta dell’identificazione proiettiva, uno dei meccanismi maggiormente coinvolti nel funzionamento relazionale patologico, all’interno del quale gli attori agiscono la fantasia di potersi onnipotentemente liberare di aspetti di sé proiettandoli nell’altro e cercano di controllarli attraverso la modificazione coercitiva a cui l’altro sente, in qualche modo, d’essere costretto.

Fairbain ipotizza l’esistenza di strutture relazionali interiorizzate. Nelle relazione madre bambino, la struttura psichica del bambino si forma secondo uno schema che comprende un Io centrale conscio e delle parti di Io inconsce, scisse dall’esperienza elaborabile, il cosidetto Io eccitante ed Io rifiutante, che interagendo con le parti corrispondenti dell’Io del genitore, suscitano in questi reazioni corrispondenti di eccitazione o rifiuto.

La relazione si strutturerebbe così secondo un gioco incrociato di identificazioni proiettive reciproche, fenomeno che si definisce collusione.

L’effetto della collusione è la formazione di un’unità integrata fra i componenti della relazione, che origina un Sé condiviso, in cui i confini dell’Io si sfaldano.

La teoria delle relazioni oggettuali ripercorre ed amplia lo studio di questi concetti, mettendo l’accento sulle connessioni esistenti fra quanto avviene nel mondo interno dell’individuo e ciò che si esprime nelle transazioni fra le persone per comprendere il modo in cui le vicende interpersonali concorrono allo sviluppo della personalità individuale.

Conclusioni

 Concluderei citando due autori che mi pare riescano ben a sintetizzare quanto finora detto sulla matrice famigliare, sul senso del Sé e sulle dinamiche psichiche coinvolte nel legame famigliare. “Consideriamo la famiglia come un piccolo gruppo e, in modo più metaforico, come il cast di un dramma, i cui temi sono una sorta di combinazione dei compiti del “lavoro” adattivo e funzionale della famiglia con una serie di fantasie inconsce, di assunti nascosti, spesso concepiti come un programma segreto.

Ancora prima della nascita i figli vengono introdotti all’interno degli assunti nascosti della vita famigliare nelle fantasie dei loro genitori e, dalla nascita in poi, una serie di pressioni genitoriali interagiscono con le necessità istintuali proprie del bambino per immobilizzarlo nel ruolo di partecipante collusivo al programma segreto della famiglia” (Zinner e Shapiro, 1972)

In questa concezione lo sviluppo strutturale viene visto come un processo, la cui possibilità di compiere il grande salto dai ruoli e dalle identificazioni all’identità può essere favorita, ma anche fortemente ostacolata, dalla realtà delle relazioni.

La famiglia offre perciò una grande opportunità di funzionare, per i propri membri, come una risorsa evolutiva.

Il primo contesto strutturante l’apprendimento, in cui l’individuo costruisce nel corso dell’evoluzione il proprio sé, vivendo, sperimentando ed apprendendo da queste esperienze i differenti modelli relazionali.

Il compito primario della famiglia è proprio quello di promuovere l’autonomia relativa all’Io e la formazione dell’Identità.

Tale compito può essere ostacolato da quegli assunti inconsci della famiglia connessi ad esigenze difensive dei genitori, che mantengono il bambino e l’adolescente all’interno di ruoli relativamente fissi.

 

 

 

Il convegno sulla psicoanalisi della coppia, in programma per il 16-17 novembre prossimi a Bologna, segna il ritorno a queste pagine.  Avevo dovuto abbandonarle in seguito alla ristrutturazione telematica impostata l’anno scorso nel centro Mosaico Psicologie. Ma questo ormai è il passato, anche se recente e quasi incombente.

Pensiamo al prossimo futuro: il convegno per esempio. Ne facciamo uno all’anno per riassumere gli studi, le ricerche e i confronti fatti durante tutto l’anno. Avremmo voluto confrontare le ricerche più recenti della neuro psicologie con le affermazioni della psicoanalisi e le ultime intuizioni dei neo psicoanalisti, ma il materiale disponibile, richiesto ad alcuni ricercatori psicoanalisti, è ancora scarso.

Siamo dunque tornati alla psicoanalisi della coppia su cui stiamo studiando da qualche anno

PSICOPOLITICA: il narcisismo del potere

Il termine psicopolitica era usato da Luigi (Gigi) De Marchi, psicologo simpaticamente irrequieto nella sua protesta: una protesta  abbastanza

infantile da non spaventare mai nessuno, nonostante le sue intenzioni bellicose.  Io lo riprendo qua anche per ricordarlo e per dargli una voce nel
momento in cui lui non può più esprimersi; so che parlerebbe volentieri del caos socio- psico-politico in cui si trovano molte persone oggi. Se potesse dire la sua sarebbe certamente galvanizzato perché oggi ci sono tutti gli ingredienti psicologici per un vero trattato della sua materia preferita.

Aver coltivato l’aspetto narcisistico sociale ha portato al desiderio diffuso di essere al vertice 

Gigi de marchidella visibilità in ogni campo, in ogni momento e con qualunque mezzo civile.

Tutti desiderano essere visti, prima di ogni altra cosa. Visti, considerati e applauditi sembra essere diventato indispensabile alle persone come una volta era il pane. Ma c’è di più.
Il narcisismo è una psicopatologia non uno stato di serenità ed equilibrio. Anche se il termine ormai è diventato di uso comune per  intendere una persona semplicemente un po’ vanitosa, la psicoanalisi lo considera una conseguenza grave dell’investimento sull’Io della libido che avrebbe dovuto essere investita sull’oggetto (esterno). Cioè uno stato in cui il soggetto vede solo (o quasi solamente) se stesso e ama il suo Io anziché entrare in relazione con gli altri.
Da questo virus narcisistico non poteva essere esclusa la politica, cioè le persone che per mestiere fanno i politici.
In Italia poi, visto che vogliamo sempre essere i “migliori” nel senso più creativo e dilettantistico possibile, abbiamo due leader politici su tre specializzati nello spettacolo. Due, sui tre che dirigono i tre partiti maggiori, sono prima di tutto uomini di spettacolo.

berlusconi
E il terzo fa le prove per diventarlo.
Si dirà che in fondo è sempre stata così, che i politici hanno sempre cercato di calcare la scena per attirare l’attenzione. Beh si, ma ci vedo due differenze importanti.
La prima riguarda il modo. Le discussioni che ricordo a “Tribuna Politica” erano improntate sui programmi, sulle promesse elettorali, sui contenuti magari fortemente ideologicizzati- Insomma la tribuna serviva per mettere in evidenza il programma mentre oggi la tribuna mette in evidenza il personaggio e gli argomenti servono a dargli maggiore risalto agli occhi del popolo.
La seconda differenza riguarda il numero
. Oggi il narcisismo contagia al punto da risparmiare solo poche persone: i pochi saggi che resistono e che ormai non sono neanche più sicuri che sia davvero saggia la loro modestia.
Prima di questa specie di pandemia i colpiti erano pochi e riconoscibili soggetti.

beppe grillo
Se vogliamo cogliere l’aspetto positivo del fenomeno possiamo aggiungere che i pochi che si sono affermati nel mondo hanno fatto danni esagerati, procurando sofferenze inaudite ad intere popolazioni, mentre i molti narcisisti di cui abbiamo parlato non riescono a fare nemmeno un briciolo di quei danni.
Il narcisismo di uno può svettare sulla modestia del popolo e lo può portare a livelli di potere molto pericolosi. invece il narcisismo diffuso, che per sua caratteristica sviluppa una grande concorrenza,  non permette ad uno solo di dominare indisturbato per molto tempo. Nella concorrenza uno insidia il dominio dell’altro in tempi abbastanza brevi.
Aggiungerei il fattore culturale, anche se quella dei media è una cultura assolutamente limitata. Comunque, la maggiore acculturazione sociale dovrebbe permettere la capacità di distinguere meglio chi è più pericoloso da chi lo è solo in apparenza o in parte. Ma su questo ho meno sicurezze.
A questo punto è necessario parlare delle reazioni del popolo verso il narcisismo del potere.

renzi
Esempio.
Un figlio che abbia il padre narcisista deve ricorrere a molte energie per emergere, per affermare la propria personalità; probabilmente deve “uccidere” il padre con violenza anziché cercare di eguagliarlo o superarlo (a seconda del proprio carattere di base). Il verbo uccidere ha ovviamente senso simbolico in questo caso. Dunque in una famiglia in cui il capo invade la scena, ai figli resta solo l’azione distruttiva.
Un’azione da dirigere su se stessi (autodistruzione) o sull’invasore (distruzione). Nella società succede qualcosa di simile. Poiché un gruppo, una nazione, un’etnia è solo la somma di tanti individui e di tante famiglie i fenomeni sono simili nella sostanza.
Cambiano solo le proporzioni.
E’ sintomatico che in Italia il gioco politico preferito sia quello di costruire un leader per iniziare subito ad abbatterlo.
Non è solo un fatto di obiettive condizioni di mal governo, è anche il gusto puro e semplice di abbattere il totem.
Una vendetta che dovrebbe compensare i troppi torti subiti dalle dominazioni di ogni sorta, subite nei secoli passate. Che però risente anche dell’ignoranza che ha caratterizzato questo popolo, da 2000 anni legatissimo all’educazione cattolica, al suo papato, ai comandamenti che includono severissime punizioni a chi sgarra (pecca).

papa rat
Questa educazione dice che a capo di tutto ci sia un solo Dio, un insuperabile capo, eterno nel tempo e perfetto nella sostanza. L’autostima dell’essere umano è inutilmente stuzzicata dall’idea di essere stato creato simile a lui, in verità resta la grande frustrazione di non avere un ruolo adeguato alle sue aspirazioni naturali.

(alfredo rapaggi)

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