Perché “contro la corrente” cognitivo comportamentale

“Contro”!
Come mai un titolo così decisamente oppositivo verso una teoria psicologica??
Provo a spiegarlo.
Tutto merito del tradizionale Convegno di fine anno della Scuola di specializzazione in psicoterapia che ho l’impegno di dirigere.
E’ il momento in cui ci si confronta sul tema proposto, che svelerò più avanti, per trovare i punti forti e quelli deboli.
Quest’anno sarà necessario essere più chiari e decisi del solito.
Perché?
La Scuola di cui sto parlando è dell’Istituto Mosaico Psicologie.
Il nome può far pensare che la teoria che lo sostiene, dai primi anni ’70,  sia di fare un bel miscuglio di pensieri e tecniche psicologiche, prese a caso e sistemate alla bell’e meglio.
E’ quello che mi comunicano indirettamente gli studenti e gli psicologi chi si avvicinano per la prima volta alla Scuola.
In effetti, mi sento un po’ responsabile di questa accusa, perché nella mia intenzione c’è sempre stato il proposito di riunire teorie e tecniche psicologiche diverse per dare il meglio ai nostri allievi e ai nostri pazienti.
Ma non ho mai detto di riunirle tutte, senza cognizione scientifica e senza un obiettivo preciso.
Anzi.
Del resto non mi pare che un mosaico sia l’insieme di tutti i personaggi e gli ambienti dell’universo. Al contrario è un quadro ben preciso, le cui tessere si uniscono per arrivare ad una figura chiara, precedentemente progettata.
Questa è l’idea di Mosaico Psicologie. Chiara e facile da leggere.La responsabilità di diffondere le teorie e la ricerca è prevalentemente del mondo accademico, a cui lo stato consegna fondi appositi, scarsi o no.
Dunque è ai docenti universitari delle facoltà di psicologia che mi rivolgo.
E’ a loro che virtualmente chiedo se hanno le idee chiare sull’esistenza e sulla funzione dell’inconscio.
Penso per esempio al professor Wiliam James, che fece un elenco dei vari filosofi, scrittori e psicologi che avevano parlato d’inconscio prima o insieme a Freud. Sembrerebbe che l’avesse fatto per dimostrare che il padre della psicoanalisi non era poi stato tanto originale.
Magari avrebbe anche potuto riferirsi a Platone o al suo discepolo Plotino, come hanno fatto altri, con lo stesso obiettivo.
Perché?
C’è da dire che James è stato anche professore di filosofia e ben si sa come tra i filosofi c’è sempre stato il vezzo di confutare le idee del collega precedente per imporre le proprie.
Però non si dovrebbe andare avanti così nella ricerca scientifica, caro professore.
Per esempio, dovrebbe essere abbastanza facile vedere la differenza che c’è tra esprimere un pensiero entro un quadro filosofico  in modo da ricavarne una certa teoria, ed elaborare questa teoria per ricavarne e sperimentare una tecnica psicoterapeutica innovativa.
Una volta constatata questa differenza il lavoro di Freud sull’inconscio verrebbe per forza distinto da tutti gli altri e apprezzato come originale.
Ma una differenza è fattibile se si conoscono le caratteristiche, non solo teoriche, dei due o più elementi in gioco.Il professor Mark Altschule si è spinto oltre nel tentativo di sminuire il lavoro di Freud: ha sostenuto che nel ‘900 non esisteva praticamente un solo psicologo che non ammettesse l’esistenza dell’inconscio.
Quelli che ho incontrato io, evidentemente lui non li aveva incontrati. Ma soprattutto non ha fatto caso al peso che ognuno di quelli stava dando alla parola “inconscio”. Una svista da ridere!
In compenso tutti noi possiamo leggere, ancora e soprattutto oggi, pagine web di psicologi, o formatori diversi, che parlano d’inconscio senza saper esattamente dove collocarlo nella vita delle persone.
L’inconscio può essere una parola come altre, se si usa (inconsciamente) un buon meccanismo di difesa: togliere alla cronaca e alle parole il loro peso emotivo.
Se questi personaggi facessero davvero clinica, si accorgerebbero di quanto spesso i pazienti dicono di ammettere l’importanza dell’inconscio nella loro vita, salvo difendersi (inconsciamente) dall’accettare che influisca su questo o quel comportamento distorto del loro carattere.
Ripeto: c’è grande differenza tra fare un’affermazione di pensiero, cioè teorica e cosciente, e vedere l’azione prevalente dell’inconscio in chi sta male.
E cercare di conoscerlo in se stessi, anche quando sembra impresentabile. 
Ma il mondo accademico, ancora oggi imbevuto di comportamentismo e cognitivismo, pare non ammettere l’importanza dell’inconscio come bacino di fatti e fantasie ingestibili, quindi rimosse.
Al massimo ammette quel tipo di spinta non volontaria che provoca azioni non desiderate. Quella non può negarla visto che da tempo la utilizzano persino i pubblicitari. Ma come mai esista e perché sia diversa dall’istinto animale, questo per loro sembra ancora un mistero
Giusto?

Dunque non ci rimane che dire che il mondo accademico è semplicemente disinformato.
Sembra un paradosso.
Che un docente di psicologia ignori come si fa la propoli non crea meraviglia.
Questo è certo.
Ma che non sappia che discussioni si fanno in Italia, a proposito dell’utilizzo dell’inconscio e dei tentativi di rendere la psicoterapia sempre più efficace, beh, questo non è bello.
Per esempio, l’Istituto Mosaico Psicologie, nel cui nome c’è già tutto, esiste da quarant’anni e non è mai rimasto nell’ombra.
Oltre tutto, da sedici anni è riconosciuto dal Miur, cioè dallo stesso ministero a cui fa capo proprio l’università italiana.
E’ possibile che a nessun docente, che di mestiere dovrebbe fare prima di tutto il ricercatore, sia mai venuta la sana curiosità di sbirciare nel nostro programma e porci o porsi una domanda?
Magari leggerci con la stessa noncuranza con cui si guardano i titoli dei giornali la mattina, tra il caffè e un cornetto.
Non voglio dire, come ricordava il ministro Andreotti, che a pensar male non si fa una cosa buona ma spesso ci si prende, però è anche difficile restare senza risposte.

Insomma, il mondo accademico è chiuso, troppo chiuso, rispetto a quello che avviene fuori. Non vede o non collabora con quegli psicologi che, pur non ricevendo dallo stato soldi e riconoscimenti, lavorano e fanno ricerca con mezzi propri, per un obiettivo che dovrebbe essere comune.
Il risultato?
Si formano distanze sbagliate tra la ricerca e la sua possibile applicazione.
In questo modo viene permessa la creazione e diffusione di teorie, come le cognitive o le cognitivo-comportamentali, che trovano applicazione nella pratica clinica, solo perché spinte da convinzioni più fideistiche che obiettive.
Non per effetto di comparazioni scientificamente interessanti.

Del resto, non si può certo pretendere che un ragazzo e una ragazza ancora inesperti, appena usciti dal lavaggio del cervello che hanno subito in università, e con l’esame di stato da sostenere a breve, siano in grado di distinguere tra una possibilità psicoterapeutica e l’altra.
Nella maggior parte dei casi si tengono ancorati ai docenti e agli insegnamenti che hanno appena ricevuto e li seguono con l’entusiastica fiducia degli adolescenti.
Con buona pace per il compito di ricerca e critica, che dovrebbe spingere l’università a fare innovazione!

Detto questo, torniamo per un momento al convegno dell’Istituto Mosaico Psicologie.
Quello di quest’anno dovrebbe, ancora una volta, aiutare la collaborazione tra due discipline che partecipano al successo della psicoterapia.
Si tratta della psicoanalisi e della neurologia.
La prima indaga i sentimenti più profondi nel loro dualismo: pulsione e morale, o anche vita e morte. Spiega come si sviluppa la personalità, partendo dalla descrizione dei meccanismi relazionali inconsci e fornisce gli strumenti per restituire alla coscienza il materiale rimosso.
La seconda fornisce la mappa sempre aggiornata del cervello, descrive il suo funzionamento chimico e meccanico, e può dimostrare se ciò che sostiene la psicoanalisi è vero, falso o possibile.
Storicamente non ci sarebbe niente di nuovo nel nostro tentativo, dal momento che Freud era neurologo ed è partito soprattutto da quelle conoscenze scientifiche, più quelle della filosofia, per ideare la sua psicoanalisi.
In lui era ben presente, in ogni momento, l’esigenza di tenere sempre unite le due componenti: quella della ricerca neurologica e quella delle conseguenze affettivo-caratteriali del suo funzionamento.
Come si sia arrivati alla situazione di oggi e come si possa procedere al meglio è il tema da sviluppare nel convegno.
Aggiungo che noi ci proviamo da anni a trovare agganci con chi abbia a cuore questo tema, e che forse oggi ci siamo riusciti.
Resta però una domanda: in questo quadro, che ruolo hanno i vari tipi di teorie che oggi chiamano “cognitivo-comportamentali?”
E’ su questo punto che mi si chiede di essere chiaro.
Freud definì “estremiste” le prime teorie comportamentali che venivano dagli Stati Uniti, ma fu troppo sintetico, forse imitando proprio il modo più pragmatico di ragionare tipicamente statunitense.
La domanda però diventa necessaria dal momento che la maggior parte del mondo accademico le ha fatte diventare basilari e le spaccia come uniche.
Attualmente gli studenti escono da prestigiose università con l’idea che l’intera psicoterapia si basi su quelle teorie, che nel frattempo, più o meno appena il sottoscritto ha finito l’università, sono diventate cognitivo comportamentali.
Eh già, perché un bel giorno i comportamentisti hanno scoperto che l’essere umano, a differenza dei loro topolini, aveva anche l’intelletto.
Io non so dove fossi quel giorno perché la notizia mi è arrivata sotto traccia, pian piano, come se fosse sempre esistita.
Anche se sui libri che avevo studiato con tanto impegno non c’era nemmeno l’ombra. Perché si sa che le notizie che partivano dagli Stati Uniti, per arrivare in Italia ci mettevano lo stesso tempo che ci avrebbe impiegato un nuotatore.
Ora è tutto cambiato: arrivano prima le notizie delle evidenze scientifiche.
E poi ricordavo bene cosa mi rispondevano i docenti quando chiedevo loro perché dovessimo studiare il comportamento dei topi, dei gatti e delle scimmie, invece che quello dell’essere umano. “A livello biologico e comportamentale sono la stessa cosa” mi rispondevano. Non mi arrendevo. “e la vita affettiva, e quel mistero per cui spesso facciamo ciò che non vorremmo? E l’intelligenza?”  A quel punto la risposta poteva diventare insofferente, tipo: “Per la psicoterapia serve solo ricondizionare le persone, come si ricondizionano gli animali…” Faccio notare che eravamo negli anni ’70 e che Freud era già morto da un pezzo. Molti di noi studenti lo avevamo già letto e molti erano venuti a psicologia per merito di quelle letture.
Poi i comportamentisti  si sono evoluti e hanno sposato i novelli cognitivisti.
Ma non vi dirò che cosa ho fatto quando un cognitivista, naturalmente americano, è uscito con la grande scoperta de “l’intelligenza emotiva”.
Va bene, diciamo che ormai conosco da tempo il metodo di chi “ha sempre ragione”, qualunque cambiamento faccia.
Ora però, fuor di polemica, dico di tener d’occhio chi lo usa, perché danneggia fortemente la capacità critica, sua e dei suoi allievi, nella sua parte più costruttiva.


Con alcuni termini basilari della psicoanalisi sta succedendo qualcosa di simile: vengono introdotti nei testi di psicologia cognitivo comportamentale come se ci fossero sempre stati.
Dovrei ritenerlo un progresso. Insomma, dovrei essere contento?
No, per due motivi.
Primo, perché diventa una manipolazione della storia e credo che invece si debba sempre cercare la verità, soprattutto in campo scientifico. A parte la questione di principio morale, credo infatti che dalla verità possano nascere evoluzioni differenti, magari più efficaci.
Secondo, perché insieme alle parole non si fa strada la metodologia psicoanalitica, che porta ad essere quel tipo specifico di professionisti e non quello che è stato “formato” con uno dei metodi cognitivo comportamentale di qualsiasi specie.
Manca prima di tutto l’analisi personale, quella per capirci che svela il materiale rimosso responsabile delle distorsioni caratteriali dello psicoterapeuta. Quella che rivela i tratti personali difensivi rispetto al paziente e che di fatto tende ad annullare l’efficacia della cura.
Poi naturalmente tutta la serie di tecniche che rendono valido l’intervento su cause profonde e inconsce delle psicopatologie.
Ma su questo punto c’è ancora molto da discutere anche con gli psicoanalisti “ortodossi”.
Per concludere.
Divido il termine cognitivo comportamentale in due componenti: la teoria e la pratica.
La teoria mi vede decisamente contro.
E questo giustifica il titolo del presente articolo.
Il principio secondo cui deve essere considerato il solo sintomo e il contesto evidente che l’ha formato è in netto contrasto col principio che considera l’essere umano come un tutt’uno di biologico, di fisico, di emotivo, d’inconsapevole e d’intelligente. Non solo, ma anche un tutt’uno di passato, con tutte le complicazioni psichiche prodotte dal tentativo di adattamento all’ambiente, e di presente, con l’ombra nascosta e dolorosa di quelle complicazioni che lo seguono in modo determinante.
Complicazioni, o meglio conflitti, che spesso lo comandano al di fuori della sua volontà, provocando una serie di sintomi utili solo a sopportare lo stato psicopatologico.
Insomma, ho diversi argomenti per considerare quella teoria molto limitata, fuorviante e sbagliata nella sua pretesa di essere quella giusta.

Una parte pratica, invece, mi vede più possibilista, purché sia usata nella quantità, nel modo e nel momento giusto
A mio avviso, e parlo sulla base di una ormai lunghissima esperienza, gli strumenti della terapia cognitivo comportamentale sono semplicemente dei corollari, ingiustamente considerati indispensabili.
Se fossero considerati degli strumenti psicologici da utilizzare come aiuto momentaneo, anche per evitare alcuni tipi di farmaci, sarebbero buoni.
Io stesso ne utilizzo, quando ne vedo la convenienza.
Per esempio, in un setting individuale, appositamente allestito, uso volentieri tecniche di rilassamento, con o senza biofeedback, tecniche di autoipnosi o l’ipnosi stessa, se necessaria. O anche ricostruzioni di episodi, rivisti psico-drammaticamente con gli occhi, ipotetici, di più persone. O posso ricorrere alle “leggi” sistemiche per aiutare due partner a capire meglio i ruoli che cercano di avere nella loro relazione. Oppure uso sottolineare i vantaggi che una persona potrebbe ricavare dal vedere e vivere un episodio in modo differente. E uso senza timore il verbo “ricondizionare” parlando di comportamenti che potrebbero aiutare la persona, anche se in modo parziale e temporaneo, ad uscire da un comportamento che la costringe ad essere impotente. Tutto questo quando non vedo le condizioni per affrontare un lavoro più impegnativo.
Poiché però nel contesto di una più completa psicoterapia, il paziente stesso sminuisce l’importanza dei sintomi e si concentra sulle cause, a quel punto diventa inutile qualunque tecnica artificiale.
Quanto ai protocolli cognitivi li trovo persino dannosi per una psicoterapia psicoanalitica dove l’elemento principale è la spontaneità, vissuta in quel particolare contesto emotivo che permette di toccare qualsiasi argomento, facendo varie ipotesi sulle pulsioni inconsce che passano anche dal transfert.
L’importanza data alla capacità di ragionare è contraria all’invito di lasciarsi andare alle emozioni e ai sentimenti che viceversa si tende a tenere nascosti.
Sappiamo anzi, che più una persona è squilibrata più esagera l’importanza e la quantità di libido che porta verso l’attività intellettuale, tanto da sembrare molto intelligente. Troppo, per non rivelare che può trattarsi di un meccanismo di resistenza importante, con la funzione di mantenere coperte le angosce altrimenti non gestibili.
Nello psicodramma analitico, più che nel setting individuale dell’analisi, questo aspetto diventa eclatante,
Dunque, no alla teoria cognitivo comportamentale e al suo utilizzo in toto.
Si ad alcuni strumenti che gli psicologi cognitivo comportamentali propongono
, tenendo presente che sono di tantissime specie, quindi il mio “si” è diverso da caso a caso.
E comunque li metto al posto che compete loro, secondo me, nell’immaginario scaffale degli attrezzi che possono diventare utili al momento opportuno.
Possono esserlo almeno quanto può essere utile la creatività dello psicoterapeuta e la sua intelligenza, nel senso che l’intelligenza e l’esperienza clinica permettono di trovare molte soluzioni estemporanee a problemi con ripercussioni momentanee.
Per restare in questo esempio simbolico, la psicoanalisi sta al centro e mi permette di utilizzarla per sostenere tecniche più complementari, come la bioenergetica di Lowen oppure lo psicodramma psico-analitico. Con entrambe posso ricorrere all’analisi dei sogni, alle catene associative, all’interpretazione delle resistenze e del transfert ogni volta che se ne presenta l’occasione e per rielaborare i vissuti, in una delle altre possibilità di setting.
Le tecniche cognitivo comportamentali non mi danno queste possibilità perciò stanno a lato, in un altro reparto.
Quando le utilizzo devo farlo in modo separato dalla pratica psicoanalitica.

Per finire, qualche tempo fa ho ripreso i risultati di una ricerca compiuta nelle strutture pubbliche inglesi che dimostrava l’inefficacia del trattamento cognitivo-comportamentale nel medio e lungo termine. (l’articolo è sul blog: www.psicanalista.info).
Ma non è stato determinante per sostenere le convinzioni che invece ho maturato nel corso della mia lunga esperienza clinica.
Determinante potrebbe essere stato, invece, constatare che chi sostiene la giustezza del metodo cognitivo comportamentale, afferma prima di tutto che non serve la psicoterapia psicoanalitica personale per arrivare a fare lo psicoterapeuta.
Questo mi fa veramente venire dei sospetti sul vantaggio difensivo dell’affermazione.
E qua mi fermo perché ho provato troppe volte ad affrontare l’argomento, ma non ho mai visto possibilità d’apertura pratica da parte di quel tipo d’interlocutori.
Trovo che questa sia la dimostrazione più valida dell’esistenza di numerosi meccanismi di difesa inconsci, contro cui la sola intelligenza cosciente non può farcela.

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