Per una psicoterapia più umana

 

Dedico questa riflessione alle persone che hanno voglia di reagire quando si accorgono di essere danneggiati, tanto come singoli che come gruppo.
Banale?
Prima di dirlo pensiamo a quante sono le situazioni in cui una persona accetta passivamente di subire un danno, o deve accettarlo per evitare complicazioni peggiori.
Dunque, mi limito a parlare dell’universo della psicoterapia, toccando il tema più importante.
L’invasione di termini statunitensi ha cambiato non solo il linguaggio di molti psicoterapeuti italiani, ma anche e soprattutto il loro approccio.
Partiamo dall’inizio, dal termine che designa il fruitore. Descriverò quattro casi.
Primo caso. In commercio, in alcune professioni tecniche e nelle attività artigianali, il fruitore di un bene o servizio si chiama abitualmente cliente o consumatore. Il suo scopo è chiaro: avere un bene o servizio in cambio di denaro. L’interesse del venditore, chiunque sia, è altrettanto chiaro: guadagnare dal suo lavoro.
Il rapporto che c’è tra i due è uno scambio molto semplice: denaro in cambio di oggetto o servizio.
Secondo caso. Nelle professioni dove il motivo per cui il fruitore chiede di essere difeso o assistito, c’è un interesse di natura più varia, non solo materiale, ma anche morale o affettiva. Il denaro non dovrebbe essere il solo motivo che spinge il professionista a fornire la sua competenza.
Posso fare l’esempio di un avvocato, che dovrebbe sentirsi coinvolto nella difesa di una persona non solo per denaro o per obbligo (tutti hanno diritto ad una difesa) ma anche perché crede in quella persona.
Nella pratica non è così.  Per quello che conosco dai miei colloqui, a volte lo è, ma a volte no. Nella pratica però, anche questi fruitori vengono chiamati clienti, nonostante la differenza di approccio.
Stessa cosa per gli psicologi.
La tendenza che viene da oltre oceano, e la direttiva dell’ordine nazionale, portano a chiamare clienti i loro fruitori.
Mi pare giustificabile solo se si fa chiarezza sulle loro funzioni.
Se si tratta di psicologi senza la specializzazione in psicoterapia, che lavorano in ambiti aziendali, o delle organizzazioni in genere, è giusto. In quelle funzioni, infatti, sono sullo stesso piano di figure professionali diverse ma dagli incarichi simili.
Se invece sono psicologi specializzati in psicoterapia, va specificato che rientrano in questa seconda categoria solo quando accettano lo stesso tipo d’incarico, di psicologia attiva.  Altrimenti passano al quarto caso.

Terzo caso . Tutte le professioni d’assistenza, in comunità o esercitate da privati, i cui fruitori possono essere chiamati utenti o pazienti, a seconda dell’intervento che ricevono. Per questi soggetti il denaro è solo un mezzo per mantenersi, non certo l’obiettivo di vita. Sono altamente meritevoli di stima.

Infine, c’è il quarto caso, quello che riguarda le professioni di cura. Qui penso che il denaro non possa essere assolutamente il motivo principale che muove l’azione del professionista. Vale per i medici e vale per gli psicoterapeuti.
I fruitori di questi servizi sono sempre stati giustamente chiamati pazienti (dal greco pàthos=sofferenza) perché si rivolgono al medico o allo psicoterapeuta per superare una sofferenza fisica o psichica.

E’ stato così fino a pochi anni fa e per molti di noi è così ancora oggi.
Che poi, l’invasione americana sia appoggiata dal mondo accademico per motivi anche di convenienza nella ricerca, o che il complesso di paperone abbia ipnotizzato tanti professionisti, o che ci siano interessi dell’ordine dei medici o degli psicologi, sono tutte questioni politiche, economiche o semplicemente narcisistiche, ma non interessano in questo contesto.
L’aspetto etico afferma che lo psicoterapeuta deve aver chiaro il suo obiettivo principale: curare la sofferenza e portare verso la soluzione dei problemi che affiggono i suoi pazienti.
Allo stesso tempo, deve aver chiaro il contesto in cui la sofferenza è nata, continua ad essere provocata e come deve essere curata di conseguenza.
Questo è il tema più importante e, come dicevo, riguarda soprattutto il modus operandi e non solo il termine linguistico, anche se è vero che al cambiamento del linguaggio ha fatto seguito il cambiamento del metodo.
La psicoterapia deve restare fuori dal mondo della speculazione legata al denaro o al potere.
Che il professionista debba avere un suo onorario è ovvio, se non è uno stipendiato dalle istituzioni. Un onorario commisurato alla sua esperienza, al luogo in cui opera, al tempo e al metodo che usa, ma sarà sempre un elemento secondario rispetto all’obiettivo terapeutico.
Il successo terapeutico rimane il focus, la ragione stessa della sua scelta professionale.
E qua potrei fermarmi.
Ma dagli Stati Uniti è arrivato anche un altro “regalo”, anche questo accompagnato dalla benedizione di gran parte del mondo accademico e non solo: il metodo cognitivo-comportamentale.
Partito dalla sola teoria comportamentista, ha subìto una serie di aggiornamenti basati sulla scoperta che l’essere umano è più complesso di un animale, dal momento che dispone anche della capacità di pensare e di scegliere.
Oggi sembra un’ovvietà, ma il comportamentismo prima maniera faceva corrispondere il comportamento umano più o meno a quello degli animali.
Sosteneva che si poteva cambiare il comportamento umano “disfunzionale” dando istruzioni al soggetto, quasi come si poteva addestrare un animale.  
Ad essere un po’ maliziosi si finirebbe per pensare che non fosse affatto casuale il messaggio che supportava quella teoria. In effetti qualunque potere preferisce avere dei sudditi addestrabili piuttosto che pensanti. Ma voglio evitare di dare troppa importanza ad una simile riflessione, che pure ne meriterebbe davvero una gran quantità.
Per stavolta la lascerò ai sociologi.
In università ci si doveva adeguare alla teoria comportamentista e a qualche teoria psicopedagogista.
Anche se in quel periodo c’erano macro-problemi sociali che prendevano un’attenzione ben più grande, i comportamentisti erano impegnati nella loro crociata.
Gli studenti badavano a superare gli esami, ma anche a protestare vivacemente per i diritti che l’università negava e a cercare soluzioni per un mondo più equo. Oltre tutto in quel periodo era appena nato il movimento femminista che di spazio e di tempo ne prendeva tanto.
Le posizioni erano tutt’altro che serene: docenti e studenti si guardavano spesso in cagnesco. Gli uni volevano imporsi, gli altri volevano ribellarsi.
Se ci fossero state le condizioni sarebbe stato utile dialogare.
Ma il momento sociale assomigliava a un vulcano e la psicologia italiana stava ancora nell’utero, dunque era particolarmente difficile disquisire con chi stava saldamente in cattedra.
Nonostante ciò, e nonostante la sproporzione numerica tra docenti del comportamento e docenti psicoanalisti (a Padova ce n’era uno solo), credo che tanti studenti si fossero appassionati alla psicoanalisi di Freud. Forse perché, messe a confronto le due teorie, Freud  pareva sulla vetta di una montagna, con la sua costanza nel volere scandagliare la psiche, con la sua ricerca di collegamenti tra la realtà e le fantasie  inconsce, con la sua attenzione alle emozioni più profonde e segrete e con le sue ipotesi di rivoluzione sessuale nella formazione della personalità.
Sono passati diversi anni, sono nate altre 14 generazioni di laureati in psicologia e pian piano tutte si sono adeguate alle manipolazioni americane.
Niente di straordinario, direte, è successo lo stesso fenomeno alla musica, alla moda, al commercio, alla finanza, e soprattutto alla comunicazione tecnologica che ora domina il mondo.
Ma come ho scritto all’inizio, le luci e le ombre degli altri settori non mi riguardano in questo momento, ora voglio interessarmi solo del campo che ho scelto come lavoro.
Non l’ho scelto per guadagnare di più, quando ho iniziato ero già a livelli economici che mi bastavano per vivere in modo decoroso. L’ho scelto perché volevo e voglio prendermi cura di chi soffre, sempre che possa avere un beneficio psico-fisico dal mio lavoro e lo accetti.
Perciò non chiamerò mai “cliente” un mio paziente, checché ne dicano le nuove tendenze.
Se avrò voglia di clienti lavorerò per le imprese, o farò l’imprenditore io stesso, o mi proporrò in qualunque altra divertente e utile attività che avrà come scopo principale quello di guadagnare il più possibile. Come ho già fatto in passato.
So di avere già il sostegno dei miei pazienti, ma spero che ci siano anche altri e numerosi colleghi che la pensino come me.
E’ vero che l’elemento più importante di questa professione, in fondo, resta la persona stessa del professionista: il suo equilibrio, la sua sensibilità, la sua intelligenza, più che la teoria che segue.
Ma la psicoterapia nel suo insieme sarebbe molto più umana se riprendesse a considerare “pazienti” le persone che si rivolgono allo psicoterapeuta.
Sono sicuro che l’intera categoria ne guadagnerebbe in tutti i sensi, anche in riconoscenza.

 

 

LA VOGLIA DI ESSERE GATTO

Penso che il gatto domestico sia l’evoluzione dell’essere umano, intendo come carattere naturalmente.
Ne traccio la storia e vediamo se è vero.
Nella tradizione dell’antico Egitto era una figura sacra, adorata come rappresentazione della dea Bastet, la parte femminile della divinità.
Secondo quella tradizione era passata da leonessa a gatta. Metafora delle speranze umane che la violenza si trasformi in serenità.
Un’ipotesi fantasiosa è che si trattasse di una leonessa che aveva capito come si potesse ottenere di più, e con meno fatica, a fare la gatta.
Ma possiamo anche immaginare un doppio passaggio: da leonessa a donna e da donna a gatta.

Possiamo immaginare che la leonessa si fosse accorta di non essere più la regina della foresta da quando un gruppo di esseri umani l’avevano invasa con i loro mezzi artificiali. Che avesse notato come le fosse impossibile vincere le loro mani capaci di fare oggetti più veloci, distruttivi e potenti delle sue doti naturali.
Continuando la nostra favola, pensiamo che abbia davvero iniziato a trasformarsi in essere umano. Pian piano, per non suscitare invidie, deve aver fatto quello che fanno i piccoli umani: ha fotografato, copiato e assunto ogni aspetto umanoide fino al giorno in cui, un millennio dopo, si è ritrovata donna.

All’inizio era felice, non faceva che scoprire nuove capacità di capire e di fare. Vedeva i tanti limiti del regno animale e le prospettive illimitate dell’intelligenza umana. Pensava che con quella si potessero percorrere solo strade illuminate da opere buone e utili.
Con la sua ben nota capacità di agire partecipò all’evoluzione delle società e rimase per molti secoli protagonista dei vari cambiamenti del mondo.
Se ne accorsero in pochi, dal momento che una diffusa caratteristica umana è il narcisismo, quel tratto che porta a vedere solo il proprio ego, le proprie esigenze, la propria bellezza e il proprio potere.
Un ego certamente più grande di quello del leone, al quale era in precedenza abituata.

Ma possiamo anche immaginare che col passare dei secoli, quella donna si fosse stancata delle complicazioni dell’intelligenza che subito le era piaciuta, e di cui gli umani si vantavano tanto.
Si vantavano di capire tutto e non capivano la parte più personale e più importante di se stessi.
Erano diventati bravissimi a criticare gli altri, a vederne ogni difetto, anzi di più, ma ognuno nascondeva la propria vera vita.
Con la loro intelligenza, deve aver pensato un giorno, avevano inventato il fuoco ed ora lo usavano per bruciare le città dei loro simili e le foreste che regalavano loro l’ossigeno.
Avevano inventato la ruota e la usavano per spingere avanti le catapulte, poi i cannoni, poi le auto e i camion e i carri armati e altre diavolerie tutte inquinanti la terra. Avevano inventato gli aerei con cui si spostavano scaricando a terra tonnellate di kerosene, quando non li usavano per gettare sulle case migliaia di bombe. Erano arrivati persino a chiamare intelligenti le loro bombe, tanto avevano le idee chiare.
O tanto pensavano che i loro simili fossero stupidi.
Con il loro acume, gli umani avevano inventato l’intelligenza artificiale.

Si raccontavano che con quella sarebbero diventati padroni dell’universo perché l’intelligenza artificiale si può espandere sempre e non si stanca mai.
Illusi, nemmeno l’universo è infinito.
E poi, un’intelligenza al servizio di chi la vorrebbe controllare ma più potente del suo controllore: quale sciocco paradosso.

Come la brillante pensata di voler vincere un nemico usando l’atomica, sapendo che ce l’ha anche lui e che il risultato sarebbe la distruzione totale di entrambi.
Insomma, se questa è la grande intelligenza che mi aveva attratto, deve aver pensato ad un certo punto, devo smarcarmi presto.
Con queste riflessioni, e col passare dei secoli, quella donna ha quindi deciso di evolversi rispetto alla falsa e dannosa capacità intellettiva umana.
Così è diventata gatta.
Sempre parte della suprema razza felina, ma meno aggressiva e più vicina all’uomo, del quale era pur sempre conveniente essere amici.
Forse è stata troppo impulsiva e pessimista.
Forse ha visto troppi aspetti negativi del mondo umano e non ha dato valore alle persone positive che ogni giorno aiutano, creano, soccorrono, costruiscono, insegnano, sostengono gli altri e cercano di salvare il pianeta.

O forse le ha viste, sì, ma in gran minoranza e molto più povere e più deboli.
Adesso mi osserva sorniona, un po’ in ansia per il mio sguardo insolitamente crucciato. Poi, quasi compatendo il mio stato di essere umano, si avvicina con gli occhi seduttivi, prende la sua dose di coccole con l’aria di chi mi fa un favore e torna sul suo gigantesco cuscino.
Mi pare che abbia completamente rimosso la sua vita appena lasciata, quella di persona intelligente.
Intelligente?
Mah, ora non ci pensa più, acqua passata.
Oggi ha un altro tipo di problemi: è in attesa della prossima dose di croccantini e col sogno che tra mezz’oretta ci siano le teste di mazzancolle alla giapponese, da venirsi a gustare alla nostra tavola.
Affatto preoccupata di quello che combinano quei fenomeni di umani, con la suprema intelligenza loro, con quella delle loro bombe e dei loro computer, alza poco poco la testa verso di me.
Io la fisso a mia volta per dirle che sono d’accordo, che mi ha convinto e che un giorno, forse, sarò anch’io un bel micio domestico: sornione, egoista, libero e coccoloso.
Ma ora non svegliatemi per cortesia.