Dimmi del tuo setting e ti dirò chi sei

Seduto in platea tra qualche decina di colleghi, ascolto il relatore che spiega come deve essere il setting di uno psicoanalista e mi faccio qualche domanda. Intanto mi piace poco quel verbo “deve” messo lì a generalizzare il comportamento di un professionista che ha come obiettivo quello di aiutare una persona a ritrovare la sua spontaneità. 

Mi sembra un’ulteriore contraddizione. 
Ne abbiamo già una enorme non vorrei proprio che se ne aggiungesse un’altra.
L’enorme contraddizione che ha uno psicoanalista è quella di accompagnare il paziente verso l’affermazione della sua personalità naturale, liberandolo il più possibile dai danni del condizionamento subito nell’ambiente familiare e sociale, mentre proibisce a se stesso di agire qualunque sentimento e fantasia sessuale che lo potrebbe unire al paziente stesso.
Non sto dicendo che non sia giusto, anzi, mi è molto chiaro che nel momento in cui ci fosse un passaggio all’atto, cioè la realizzazione di una fantasia amorosa tra l’analista e la o il paziente, i ruoli cambierebbero in modo definitivo. Ho ben chiaro che nel cambiamento, quando i due passassero da essere in ruoli asimmetrici (uno analista e l’altro paziente) a ruoli simmetrici (entrambi amanti sullo stesso livello) l’intera impalcatura del transfert crollerebbe. E con quella la cura nel suo complesso. Questo mi è chiaro, tuttavia devo sottolineare che si vive una contraddizione, un conflitto a volte molto pesante da sostenere.
Tutte le società di psicoanalisi sostengono che ogni allievo debba sottoporsi ad analisi prima di esercitare a sua volta, perché è importante che impari a riconoscere i propri sentimenti, a partecipare a quelli del paziente, a svelare i propri meccanismi di difesa e infine a controllarsi per la buona riuscita della cura. E raccomandano la supervisione continua. Ma proprio tutte queste precauzioni svelano che ci sarà un conflitto permanente, un conflitto inevitabile e però gravoso.
Allora perché aggiungere ulteriori fardelli.
Il setting, per esempio, non può essere dato come obbligatorio ma come scelta che corrisponde allo stile dell’analista, ovvero alla sua personalità di base, alla sua formazione di vita, alla sua esperienza professionale, alla scuola di specializzazione che ha frequentato e soprattutto alle esigenze del paziente.
La scuola di specializzazione che dirigo si chiama “Mosaico” come il centro di psicologia da cui è nata. Mosaico nel senso che riconosce all’essere umano la sua natura complessa, il pensiero psicologico come altrettanto vario e la psicoterapia come un insieme di possibilità di cura dei sintomi e delle nevrosi.
L’insieme di possibilità permette allo psicoterapeuta di scegliere la formula più opportuna per ogni paziente e per ogni occasione. Questo è il punto difficile da realizzare perché richiede al professionista la conoscenza di più teorie e di più tecniche tra cui scegliere con cognizione di causa.
Il relatore di cui parlavo all’inizio dava per certo che il setting fosse unico per ogni scuola, in particolare per quella psicoanalitica. Trent’anni fa era un ragionamento diffuso, oggi è abbastanza strano e in ogni caso non lo trovo giusto: il luogo e il modo di stabilire una cura mi auguro che soddisfi sempre quello che abbiamo chiamato lo “stile” dello psicoterapeuta. Anche del più ortodosso e schematico psicoanalista. Come quello del paziente, ovviamente.
La personalità introversa, e un po’ cupa, di Freud si è trovata bene nel setting individuale con il paziente steso sul lettino.
Questo piace anche a me, introverso, a parte che ho variato il lettino in “lettone”. Si, ho pensato che il lettone richiami più facilmente esperienze e fantasie legate al rapporto genitori-figli della prima infanzia. L’ho sperimentato perché in un diverso studio ho il lettino e quindi posso vedere la differenza. Il lettone, spesso e più facilmente, riporta ricordi legati al tipo di legame affettivo-sessuale che si è formato durante il periodo “edipico”.
Poi però, siccome sulla mia introversione naturale ha inciso una famiglia numerosa, fracassona e creativa, al setting individuale ho aggiunto quelli di coppia, di famiglia, di gruppo, oltre a quelli di espressione corporea. Grazie anche a questo ho pensato bene di cambiare luoghi, arredi e formule. Mantenendo sempre il filo conduttore caratteristico della psicoanalisi, ho deciso di adattarmi alle necessità di ogni persona e di ogni situazione
Ecco che cosa intendo.
Riferendomi ancora a Freud, ricordo che disse: “devo dichiarare che questa tecnica (la psicoanalisi appunto) è risultata essere l’unica tecnica adatta alla mia individualità. Non oso negare che un terapeuta con caratteristiche diverse possa sentirsi spinto ad adottare un atteggiamento differente nei confronti dei suoi pazienti e del compito che si propone. Ebbene, si è trattato di una saggia riflessione che già all’epoca salvava alcuni dei suoi allievi e “seguaci”, tipo Groddeck o Ferenczi.
Ma fin dove si può spingere la libertà di scelta e che tipo di altro setting immaginava possibile?
Moreno, altro introverso ma con una più spiccata propensione narcisistica dovuta anche alla sua ben più complessa formazione familiare, ideò la scena dello psicodramma.
Un setting totalmente contrapposto a quello discreto, quasi massonico di Freud. Un setting che però riusciva a soddisfare la sua necessità di esibizione e di controllo della sua simbolica famiglia, un setting che infatti è molto utile nei casi di difficoltà relazionale di personalità introvertite.
Beh, di Moreno mi sembra più utile ricordare che rispose alla frase di Freud, citata prima, con la seguente velenosa ma indiscutibile frecciata: “il problema resta quello di stabilire se (la psicoanalisi) fosse il metodo migliore per i suoi pazienti”.
Infatti questo aspetto non è meno importante del precedente. Il metodo, il luogo, la persona dell’analista, il setting nel suo complesso sono quasi automaticamente lo specchio dell’analista stesso (o dello psicoterapeuta) e dunque per lui dovrebbero sempre andar bene, ma non è detto che siano altrettanto buoni per il paziente. Perché anche i pazienti hanno personalità diverse. Diverse da quella dell’analista e diverse tra loro.
Ecco perché la mia idea si è chiamata “Mosaico Psicologie”: un complesso di teorie e di tecniche che si adattano a quasi tutte le situazioni. Migliorabile ovviamente come tutti i prodotti dell’essere umano.
Perché, a mio avviso, dal tipo di setting si può conoscere la personalità e la preparazione e anche l’esperienza dello psicoanalista. Se è duttile, se sa utilizzare più di una tecnica, se viceversa è “ortodosso” e segue solo un metodo, quello che ritiene essere il classico. Se utilizza una psico – diagnosi prima di decidere il metodo, se è introverso o estroverso, se ha confidenza con i blocchi e le reazioni del corpo, se ha capacità di condurre gruppi e se e quando li ritiene utili.

(alfredo rapaggi)

 

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